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Channel: Diari di viaggio – Il Giramondo
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Arizona, New Mexico, Texas: il mix di culture delle terre di confine

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Here we are again! Back in the USA, la nostra grande passione. Nel 2015 i Parchi della West Coast. Nel 2017 Yellowstone e Real America. E nel 2019? Neanche il tempo di disfare le valigie del viaggio precedente e, Lonely Planet alla mano, iniziamo a studiare un nuovo itinerario. La East Coast? Grandi metropoli ma poca natura. La caraibica Florida con le sue Keys? Ma agosto è stagione di uragani. E poi chissà che umidità e quante zanzare alle Everglades! E perché non la mitica Route 66? Questa sì che ci ispira! Però, accidenti, quanto costa un volo con arrivo a Chicago e ripartenza da Los Angeles! Per non parlare del noleggio auto con drop-off. E se circoscrivessimo il viaggio alla parte più interessante della Route 66, quella meglio conservata e più ricca di attrazioni? Dovrebbe essere quella che attraversa Arizona, New Mexico e Texas. Se ci aggiungiamo i parchi e le città circostanti dovrebbe venir fuori un viaggetto niente male. Vediamo un po’, partendo da Phoenix con un itinerario circolare si potrebbe fare:

Phoenix – Saguaro – Tucson – Tombstone – Chiricahua – Gila Cliff Dwellings – Las Cruces – El Paso – White Sands – Carlsbad Caverns – Lincoln – Roswell – Amarillo – Tucumcari – Santa Rosa – Santa Fe – Taos Pueblo – Abiquiu – Bandelier – Kasha-Katuwe – Albuquerque – Very Large Array – El Malpais – Acoma Pueblo – Gallup – Canyon de Chelly – Petrified Forest & Painted Desert – Holbrook – Winslow – Meteor Crater – Flagstaff – Williams – Grand Canyon – Sedona – Montezuma Castle – Phoenix

18 giorni, quasi 6200 km. Tanta roba davvero. Ce la faremo? Vediamo.

7 agosto: Venezia – Phoenix

Il volo quest’anno è stato un po’ un calvario. Già dalla prenotazione a gennaio sono iniziati i guai. Avevamo adocchiato un volo Venezia-Londra-Phoenix con la conveniente e ormai super collaudata British Airways, ma allettati dall’offerta volo+hotel abbiamo prenotato tramite Expedia anziché direttamente dal sito della compagnia. E come spesso insegnano, “intermediario” uguale “fregatura”. Infatti grazie alla poca trasparenza del sito di Expedia ci siamo trovati prenotata una tariffa Basic Economy invece della Standard, vanificando di fatto l’apparente convenienza. Questa non ci voleva, non possiamo fare un viaggio di tre settimane con il solo bagaglio a mano! Telefoniamo subito a Expedia e dietro minaccia di cancellare la prenotazione otteniamo il rimborso del costo dei bagagli che avremmo dovuto acquistare da British. In 48 ore per fortuna riceviamo l’accredito e il problema è risolto. Voto 4 per la poca trasparenza del sito di Expedia, voto 9 per l’assistenza clienti. Sta di fatto che la prossima volta eviteremo gli intermediari…

Quindi si parte? Non è ancora detta l’ultima. Dobbiamo fare scalo a Londra dove purtroppo è previsto uno sciopero del personale aeroportuale, che iella… Non ci resta che incrociare le dita e prepararci al peggio. Ma siamo fortunati, lo sciopero è revocato in extremis, l’abbiamo scampata bella! Sicuri?? Arriviamo a Londra e notiamo sui tabelloni delle partenze una sfilza di CANCELED, CANCELED, CANCELED… Mah, che strano. Però il nostro volo pare in orario. Sììì… come no! Guasto ai sistemi informatici, tutti i voli in ritardo, cioè, quelli che non sono stati cancellati. E sentite questa: il nostro aereo deve aspettare uno dei membri dell’equipaggio che si trova su un altro volo proveniente da Manchester e ovviamente in ritardo anche quello! Ma dico io, personale di riserva no? Stiamo parlando di British Airways, mica di una low cost qualunque! Alla fine partiremo con 4 ore di ritardo e saremo costretti anche a telefonare all’autonoleggio negli USA per assicurarci che ci tengano l’auto. Per fortuna la gentilissima Alamo ci tranquillizza, guadagnando subito dei punti e facendoci un po’ dimenticare il costo esorbitante della chiamata intercontinentale.

Arrivati a Phoenix Sky Harbor alle 21,30 anziché le 17,30 speriamo che i controlli all’immigration almeno siano veloci. Ma qui non siamo a Denver come due anni fa. Niente postazioni automatizzate con scansione autonoma del passaporto e delle impronte digitali, ma la classica lunga fila dall’ufficiale di turno. E siccome sono zone di confine sono anche piuttosto scrupolosi e si dilungano in domande e controlli. Che lavoro fate? Cosa fa la vostra azienda? Quanto vi trattenete? Dove alloggiate? Quanti contanti avete? Stranamente la nostra terza volta negli States invece di sorprendere favorevolmente il nostro ufficiale lo mette in allerta. “Okay, you may go” dice al mio compagno Tiziano, poi si rivolge a me: “But there’s something wrong with you…” What?? “Have you ever been arrested?” Arrested?!! Vogliamo scherzare! In due viaggi e 13.000 km non abbiamo neanche mai preso una multa! L’ufficiale non è convinto e dopo avermi sequestrato il passaporto mi accompagna in un ufficio separato. Siam mesi bene, ci manca solo che mi mettano sul primo aereo e mi rispediscano a casa! Bella riconoscenza verso dei turisti affezionati come noi. Va be’, alla fine aspetto 5 minuti in questo ufficio, dove l’impiegato fa qualche controllo al terminale, mi fa le solite domande che mi aveva già fatto l’altro, poi mi riconsegna il passaporto e tanti saluti. Non saprò mai cosa avevo fatto per essere stata arrestata secondo loro. E bravi gli americani.

Ora che abbiamo scampato anche un possibile rimpatrio possiamo andare a ritirare l’auto. Usciamo dall’aeroporto e ci dirigiamo verso la zona navette. Mamma mia che botta di caldo! Sono le 11,00 di sera e Phoenix è un forno! Non oso pensare durante il giorno! L’aria condizionata dell’autonoleggio ci accoglie come un’oasi nel deserto. Ed effettivamente siamo nel deserto, Phoenix si trova nel bel mezzo del Deserto di Sonora… Ci avviciniamo esitanti al desk della Alamo, già prevedendo il peggio, memori dell’esperienza di due anni prima con la Thrifty. Con gli autonoleggi la fregatura è sempre in agguato e la prudenza non è mai troppa. Invece questi non ci propongono nessun upgrade indesiderato, la nostra auto è disponibile e non ci sono costi supplementari tranne il pieno di carburante per la riconsegna a serbatoio vuoto. Splendido! E, cosa da non credere, possiamo sceglierci noi l’auto! Sì, solo che Tiziano va a pescare una full-size mentre la nostra doveva essere una mid-size. Lasciamo stare, dico io, ti ricordi la fregatura dell’altra volta? Ma l’impiegato sorprendentemente ce la concede come upgrade gratuito. Aiuto, ecco, sento odore di guai… Ma siamo sicuri, sicuri, sicuri che non dobbiamo pagare niente?? “Free upgrade” conferma l’impiegato. Incrociamo le dita e accettiamo. Speriamo bene…

E così prendiamo la nostra Kia Optima e ci avviamo verso il vicino Super 8 a Tempe, la zona universitaria a pochi km di distanza dall’aeroporto. E meno male perché è passata mezzanotte quando finalmente stramazziamo distrutti sul letto. Facendo due conti per noi ora sarebbero le 9,00 del giorno dopo, il che significa che siamo in giro da 30 ore…

8 agosto: Saguaro NP – Tucson

Il mattino dopo ovviamente la sveglia non serve, grazie al fuso orario siamo già in piedi alle 5,00. La giornata sarà tosta: la nostra prima meta è il Saguaro National Park, un deserto, e noi abbiamo sul groppone 30 ore di viaggio con ritardo aereo e il jet lag dovuto ai 9 fusi orari di differenza. Usciamo per fare colazione e subito ci investe l’effetto phon del clima di Phoenix, ricordandoci che la prima tappa del giorno dovrà per forza essere un supermercato, alla ricerca del frigo in polistirolo, nostro inseparabile compagno di questo come dei precedenti viaggi. Impensabile trascorrere un’intera giornata in mezzo al deserto senza acqua fresca a galloni. Al secondo tentativo, grazie anche alle dritte dell’hotel, siamo fortunati e troviamo frigo e viveri. Anche quest’anno il pranzo al sacco con panini, insalate e frutta ci farà risparmiare tempo e denaro, limitando al minimo il ricorso a fast-food e ristoranti.

Il Saguaro National Park occupa l’area intorno alla città di Tucson, a circa due ore d’auto da Phoenix, e deve il nome alla varietà di cactus che lo popola, il saguaro appunto. Sono quei cactus giganti che si vedono nei film western, e naturalmente nei cartoni animati di Willy il Coyote e Beep Beep! Ne trovate anche a Phoenix ma qui sono molto più numerosi e belli perché il parco è proprio una riserva creata ad hoc per preservarli. Il Saguaro è molto esteso e praticamente circonda la città di Tucson: la parte ovest si chiama Red Hills Tucson Mountain District e la parte est Rincon Mountain District, ognuna con un proprio Visitor Center. Per passare da una parte all’altra bisogna attraversare la città e a seconda del traffico ci possono volere dai 30 ai 60 minuti. Per questo se si vuole visitare tutto il parco facendo anche qualche trail (caldo permettendo) è necessario mettere in conto l’intera giornata, cominciando da ovest e spostandosi verso la parte est nel pomeriggio.

Arriviamo al Visitor Center della sezione ovest che sono le 10,00 e il caldo è già notevole: il clima desertico è strano, può esserci anche un forte vento ma sono zaffate di aria calda, effetto phon, come già sperimentato nella Death Valley qualche anno fa. Verso mezzogiorno la temperatura sale fino a 38-40°C, neanche tanto a pensarci bene, ma è un caldo asfissiante, da togliere il fiato, e si percepisce un penetrante odore di “secco” che inaridisce di continuo la gola, quindi se si vuol fare qualche trail meglio scegliere le ore più “fresche”, per modo di dire ovviamente, e portarsi tanta, tanta acqua. Noi purtroppo non abbiamo scelta, venendo da Phoenix ci toccano proprio le ore centrali.

Dopo aver acquistato il solito pass “America the Beautiful” da 80.00$, valido per un anno per tutti i parchi nazionali dell’NPS, iniziamo la visita in modo “soft”, con lo scenic drive della sezione ovest, il Bajada Loop Drive, un percorso ad anello di 10 km non asfaltato ma percorribile anche con una normale berlina. Qui facciamo un primo breve trail fra saguari giganteschi e meravigliosi cactus fioriti: incredibile, quasi non sembra di trovarsi in mezzo al deserto, non fosse per il caldo sembrerebbe veramente un bel giardino fiorito. Ci sono anche tanti piccoli animaletti, lucertole, gechi, e i buffissimi road runner, i Beep Beep del cartone animato, impossibili da fotografare per quanto sfrecciano veloci. Nessuna traccia invece di Willy il Coyote, ma lungo il Signal Hill Trail individuiamo una volpe grigia che si porta la preda nella tana. Se ce la fate vale al pena percorrere questo breve trail perché sulla collinetta di Signal Hill ci sono diverse rocce con degli antichi petroglifi. Altro percorso da non perdere è il Valley View Overlook Trail che conduce ad un punto di osservazione sopraelevato da cui si può ammirare la valle sottostante.

Riprendendo l’auto per trasferirci verso la sezione est del parco ci sono un paio di attrazioni lungo la strada: la prima è l’Arizona-Sonora Desert Museum, ma il costo elevato dell’ingresso ci scoraggia, considerato che vedremmo le stesse cose già viste nel parco. La seconda attrazione sono gli Old Tucson Studios, per chi è interessato al genere dei parchi tematici tipo Universal Studios a Los Angeles. Questo però non è solo un parco a tema ma è un vero e proprio set cinematografico tuttora utilizzato. Noi però preferiamo proseguire per una sosta-pranzo in città prima di passare alla sezione est del Saguaro.

Tucson (tusòn per gli americani) è la seconda città dell’Arizona per dimensioni dopo Phoenix, torrida d’estate ma mite d’inverno, e per questo meta di vacanzieri e di proprietari di seconda casa che vanno a trascorrervi i mesi più freddi. Noi a dire il vero non l’abbiamo trovata così attraente. Ci attendevamo la classica cittadina in stile western ma in realtà di storico è rimasto poco, se togliamo l’Hotel Congress nella centrale Congress Street, che deve la sua notorietà al fatto che qui agli inizi del ‘900 è stato catturato un famigerato rapinatore di banche, evento di cui ogni anno viene fatta una rievocazione storica. Altre attrazioni degne di nota sono la St. Augustin Cathedral e il quartiere di El Presidio. Dopo un pranzo veloce a El Presidio Park e una passeggiata su e giù per la Congress Street, riteniamo di aver dedicato abbastanza tempo alla città, anche perché il sole picchia parecchio e il caldo è notevole. Ideale per passare il resto del pomeriggio nel deserto insomma!

E così ci dirigiamo verso la parte est del Saguaro, il Rincon Mountain District. Questa è la sezione più vasta del parco e si trova ad un’altitudine maggiore rispetto alla sezione ovest. Per questo motivo è consigliato visitarla nel tardo pomeriggio, perché non solo avrete la possibilità di ammirare le distese di cactus giganti da una maggior elevazione, ma potrete godere dell’effetto cartolina dei cactus scuri che si stagliano contro il rosso del tramonto. Anche questa sezione ha il suo scenic drive, il sinuoso Cactus Forest Drive, un percorso one-way a saliscendi che culmina al Tanque Verde Ridge a 950 m, ideale per godere del panorama della valle sottostante al tramonto. Sì, ma che fatica aspettare con il peso del viaggio e del jet lag! Per non parlare del caldo… Ad un certo punto l’abbiocco ha la meglio su di me e senza ritegno prendo possesso di una panchina per una pennichella ristoratrice in attesa del tramonto. Dopo di che ci dirigiamo verso il nostro motel fuori Tucson. La prima giornata è stata dura ma domani saremo certamente più in forma!

9 agosto: Tombstone – Chiricahua – Willcox

Ed eccoci a Tombstone! “The town too tough to die”, come dice il suo motto. Con un salto indietro nel tempo di oltre un secolo ci ritroviamo nel più autentico Far West, in una delle cittadine in stile western meglio conservate, fra briganti, pistoleri e giocatori d’azzardo. E non solo idealmente. Vi capiterà proprio di incontrarli per strada in carne e ossa. Siamo infatti nella città di Wyatt Earp, personaggio leggendario immortalato in tanti film western e passato alla storia, oltre che per i suoi enormi moustaches, anche per i suoi metodi di far rispettare la legge, diciamo, ai limiti della legalità. Il mito dei fratelli Earp e dell’Old Wild West viene rievocato quotidianamente da figuranti in costume d’epoca che passeggiano per le strade ancora sterrate, ricostruzioni storiche e spettacoli di sparatorie. In effetti, a dirla tutta, Tombstone è un po’ una trappola per turisti. Ogni angolo della città è un’attrazione e il turismo sembra essere l’unica attività dei suoi abitanti.

L’impatto con la cultura di confine all’inizio è spiazzante. Siamo a una cinquantina di km dal Messico e per questo non sorprende il proliferare di ristoranti messicani e la parlata spagnola, ma questi hanno un idioma veramente strano! Quindi non stupitevi se sarete accolti con un incomprensibile “Howdy pardner?” che nel gergo locale vuol dire “How are you doing friend?” E poi che strano nome Tombstone. Non molto beneaugurante, eh? In effetti la città fu fondata da un cercatore di metalli preziosi che un giorno parlò delle possibili ricchezze minerarie della zona ad un amico soldato di un forte vicino. Questi però lo mise in guardia dal pericolo degli Apache che la popolavano, dicendogli che l’unica “pietra” che avrebbe trovato sarebbe stata la sua pietra tombale (“tombstone” appunto). Quando poi questo esploratore trovò effettivamente una vena d’argento, chiamò il sito Tombstone in ricordo delle parole del soldato.

Così la città, nata inizialmente come sito minerario, ben presto conobbe un vero e proprio boom demografico ed economico e iniziarono a proliferare altre attività più o meno legali come saloon, case da gioco, bordelli. Ma si sa, dove sta il vizio e i facili guadagni spuntano facilmente le pistole. E infatti verso il 1880 Tombstone era una delle città più violente del south-west, costringendo spesso i tutori della legge a feroci repressioni. È qui che entrano in scena i fratelli Earp, lo sceriffo Virgil con Morgan e Wyatt, che insieme al pistolero e giocatore d’azzardo Doc Holliday furono protagonisti di una sanguinosa sparatoria contro i banditi Clanton, McLaury e Claiborne, passata poi alla storia come Gunfight at the O.K. Corral.

Inutile dire che la città vive ancor oggi del mito creato da quegli eventi. E così anche noi ci prepariamo ad acquistare il nostro biglietto da 10.00$ per assistere al Gunfight Reenactment, la rievocazione storica della sparatoria che ha luogo più volte al giorno presso il sito originario dell’evento, l’O.K. Corral in Fremont Street. Non aspettatevi niente di speciale, è il solito spettacolo per turisti tra il serio e il faceto, di cui capirete ben poco a causa dello slang stretto e velocissimo tipico del south-west. Ma come farsi mancare la classica foto finale con Doc Holliday e i fratelli Earp? Poi con lo stesso biglietto potrete visitare il vicino Historama Theater e il Tombstone Epitaph, la sede del giornale che per primo pubblicò la notizia della sparatoria e che ora è un museo dove sono esposti i macchinari di stampa dell’epoca.

Ma ancor più interessante è una puntatina al Boothill Graveyard, il cimitero storico della città, che conserva le tombe dei fratelli Clanton e McLaury protagonisti della celebre sparatoria, oltre a quelle di altri defunti più o meno noti. La cosa buffa, nella sua tragicità, sono le iscrizioni su molte delle lapidi: “Murdered”, “Killed”, “Lynched”, “Suicide”, fino all’incredibile “Hanged by mistake”! Insomma, sembra che in questa città quasi nessuno sia morto di morte naturale, il che la dice lunga sul clima dell’epoca!

Nel pomeriggio ci spostiamo nel sud-est dell’Arizona verso il Chiricahua National Monument. Il parco deve il nome alla tribù di indiani che originariamente lo popolavano, i Chiricahua Apache, il cui capo fu il celeberrimo Geronimo. È un parco di nicchia frequentato pochissimo, essendo decisamente “off the beaten path” rispetto ai classici itinerari del turismo di massa. Quando poi ci arriviamo il tempo si è decisamente guastato (primo assaggio del clima monsonico del sud-ovest americano), per cui lo abbiamo praticamente tutto per noi, fatta eccezione per qualche temerario che come noi si avventura sotto la pioggia.

Il parco è caratterizzato da rocce di riolite di colore scuro frutto dell’attività vulcanica, che gli agenti atmosferici hanno eroso fino a formare degli strani pinnacoli in costante equilibrio precario. Sono gli hoodoos e i balanced rocks, lontani parenti di quelli del Bryce Canyon e di altri parchi dello Utah, seppur senza i loro magnifici colori accesi. C’è uno scenic drive di 13 km da percorrere in auto, il Bonita Canyon Drive, che si snoda fra la vegetazione rigogliosa e gli strani pinnacoli, e lungo il quale con un po’ di fortuna si può avvistare qualche animale selvatico. Poi ci sono diversi trail da percorrere fra gli hoodoos. La nostra intenzione era di fare l’Echo Canyon Loop di 5 km, ma comincia a piovere sempre di più, la temperatura si abbassa drasticamente e poco dopo siamo costretti a riprendere l’auto. Peccato, in una giornata di sole il parco sarebbe stato proprio bello. Passiamo la notte in un motel nella vicina Willcox, sperando che l’indomani il tempo migliori.

10 agosto: Gila Cliff Dwellings – Las Cruces

Oggi sveglia alle 5,30, sigh! Sì perché ci aspettano almeno 4 ore di strada per raggiungere la nostra prossima meta, di cui buona parte in zone impervie di montagna. E dobbiamo tener conto anche dell’ora di fuso che perderemo passando dall’Arizona al New Mexico. Ma eccoci finalmente al confine, collezionando così il decimo stato dei nostri tour negli States. Ovviamente foto di rito davanti all’insegna “Welcome to New Mexico The Land of Enchantment”: con un nome così evocativo non possiamo che avere grandi aspettative!

Abbandonata l’Interstate e raggiunta la città di Silver City, da qui inizia il tratto più lungo e impegnativo: sono solo 45 miglia, ma con le strade impervie e tortuose di montagna e i rigidi limiti di velocità impiegheremo circa 2 ore. I panorami però sono stupendi: folte foreste, animali selvatici, ripide pareti di scura roccia lavica. Insomma, a guardar fuori dal finestrino non ci si annoia. La meta del nostro viaggio è il Gila Cliff Dwellings National Monument, importante sito archeologico solcato dal Gila River che ospita le antiche abitazioni rupestri del popolo dei Mogollon, vissuto qui circa 700 anni fa in anfratti delle pareti rocciose. Abbiamo già visto qualcosa di simile a Mesa Verde in Colorado, anche se non c’è paragone con quel sito patrimonio UNESCO, molto più esteso, strutturalmente articolato e ben conservato. Anche queste rovine però hanno il loro fascino, per cui vale la pena percorrere il breve trail di un miglio che fra ponticelli sul Gila River e arrampicate sulle immancabili scale a pioli ci farà conoscere da vicino queste abitazioni.

Ad accoglierci all’imbocco del sentiero c’è un’attempata ma simpatica ranger che come al solito ci riempie di raccomandazioni: non toccare le rocce, non sedersi sulle rovine, non portare via nulla, ma soprattutto: essere in perfetta salute e portare con sé tanta acqua. Aridaje… Sì perché il percorso è ripido e siamo a un’altitudine elevata (e capirai, 2000 m, i soliti scrupoli degli americani…). Ma dico io, è solo un miglio e fra l’altro il cielo è coperto e sta per piovere! Ovviamente noi l’acqua non l’abbiamo (figurati se mi porto dietro un gallone per fare un km e mezzo) e così cerchiamo di convincere la ranger che non ne abbiamo bisogno, che siamo degli esperti montanari e degli hikers allenati. “Do you know the Dolomites?” No, non credo le conosca, comunque si convince, ci dà una brochure e ci lascia andare.

Il percorso in effetti è ripido nella parte iniziale ma è breve, e in un’oretta riusciamo a completare il loop prima che inizi a piovere sul serio. A questo punto ne approfittiamo per la pausa pranzo al Visitor Center, dove ci incuriosisce uno strano “abbeveratoio” appeso in alto intorno al quale ronzano… api? No, troppo grandi. Sono colibrì! Attirati vicino al Visitor Center da una soluzione zuccherina a beneficio dei turisti. Carini!

Ma intanto non vuol smettere di piovere e siccome qui non è rimasto molto altro da fare, decidiamo di riprendere l’auto in direzione Las Cruces, dove alloggeremo stasera. Durante il tragitto però ci concediamo una passeggiata a Silver City, graziosa cittadina in stile western che merita senz’altro una sosta. Da qui dobbiamo percorrere altre due ore di strada per raggiungere Las Cruces, ma ad un certo punto paesaggio e clima cambiano radicalmente. Niente più pioggia ma un sole da spaccare le pietre, mentre la temperatura comincia a salire, salire, salire. E al posto della rigogliosa vegetazione distese desolate a perdita d’occhio. Ma siamo sempre nello stesso stato? Eh sì, questa è la zona dei deserti, che sono poi la parte preponderante del New Mexico, ci faremo presto l’abitudine.

Quando arriviamo al motel a Las Cruces sono solo le 5,00 del pomeriggio e fa ancora un caldo infernale. Il nostro primo pensiero è andare a controllare se c’è la piscina. Sììì!!! Ne approfittiamo subito per un’oretta di relax, unica volta che ci riuscirà di farlo nell’intera vacanza. La serata la trascorriamo nel primo di una lunga serie di ristoranti messicani, immancabili in queste zone di confine e un piacevole diversivo ai soliti indigesti fast food americani. Non che questa sia una cucina leggera, anzi: ci portano due piatti stracolmi da far paura che nessuno dei due riuscirà a finire, mentre litri di acqua non riescono a spegnere l’incendio dei quintali di peperoncino piccante. Si prospetta una notte difficile…

11 agosto: El Paso – White Sands – Alamogordo

La notte per fortuna passa indenne, almeno per quel che ci ricordiamo, perché come ogni sera stramazziamo distrutti sul letto già alle 9,00… L’indomani ci aspetta una dura giornata nel deserto. Ma siccome da Las Cruces a White Sands il tragitto è breve, perché non infilarci una piccola deviazione verso El Paso? Così vediamo finalmente questo famigerato confine con il Messico (ci sarà il muro?!) e facciamo anche un piccolo sconfinamento in un nuovo stato, il Texas. A proposito, il Texas non ha sul confine la solita insegna ma un bel monumento in pietra marrone con in cima un’enorme stella tridimensionale. Sì perché il Texas è “The Lone Star State”, a rievocare il tempo in cui era una repubblica indipendente. Altra curiosità, qui come in New Mexico: i viadotti delle Interstate tutti dipinti e decorati con figure geometriche o motivi indiani. Davvero originali.

El Paso dista solo una cinquantina di miglia da Las Cruces e trovandosi in un angolo estremo del Texas che si incunea nel New Mexico non cambia nemmeno il fuso orario, che rimane quindi un’ora indietro rispetto al resto del Texas. El Paso ci incuriosiva per il fatto di essere una città di frontiera divisa in due dal Rio Grande, come se ne trovano spesso sul confine fra USA e Messico: El Paso negli States e dall’altra parte la famigerata Ciudad Juàrez, considerata una delle città più pericolose al mondo. E il caso vuole che solo qualche giorno prima del nostro arrivo ci sia quella tragica sparatoria al Walmart con una ventina di morti e altrettanti feriti. Insomma, non è che siamo tanto tranquilli, ma ci diciamo: per la statistica, se è appena successo non può già succedere di nuovo. O almeno speriamo… Invece El Paso ci accoglie come una metropoli di cultura prevalentemente ispanica certamente grande e movimentata, ma assolutamente ben tenuta, ordinata, piacevole da visitare e costantemente protetta dalla forze dell’ordine. E pare non sia un caso dovuto alla necessità del momento, ma che rientri nelle normali abitudini. Niente vagabondi e senzatetto per strada, nessuna traccia di degrado o povertà, insomma l’impressione è quella di una città sicura.

Downtown in realtà non ha da offrire grandi monumenti storici, ma è piacevole passeggiare per la centrale El Paso Street, la Union Plaza o la San Jacinto Plaza, e ammirare qualche bella chiesa antica come la St. Patrick Cathedral o la St. Clement Church. Ma l’attrazione più originale è forse il Chamizal National Memorial, un parco-memoriale situato proprio sul confine, che celebra la pacifica risoluzione nel 1963 di una disputa durata un secolo sui confini fra USA e Messico. Oltre al museo del centro culturale gestito dall’NPS, quel che balza agli occhi sono i coloratissimi murales che raffigurano la fusione delle culture americana e ispanica. Rimaniamo invece un po’ delusi dal fatto di non poterci avvicinare al Rio Grande e al muro di confine con il Messico, che in realtà non è un vero e proprio muro ma una barriera metallica. C’è però un modo per vedere il panorama della città dall’alto, ed è quello di percorrere lo scenic drive che salendo sulle colline circostanti permette di raggiungere un piccolo parco con un overlook. Questa dev’essere anche la zona residenziale della città, perché ci sono delle villone megagalattiche che assomigliano un po’ a quelle di Bel Air a Los Angeles. Insomma, El Paso non è per nulla una città malfamata, anzi!

A questo punto non ci resta che tornare a Las Cruces per dedicare il pomeriggio all’attrazione principale: White Sands. Si tratta di un enorme deserto di 710 kmq veramente particolare perché caratterizzato da dune bianchissime e abbaglianti che gli conferiscono un aspetto surreale. A renderlo tale è il fatto che quella che sembra sabbia in realtà è candido e finissimo gesso. Ma il gesso in teoria dovrebbe essere solubile in acqua. Perché non viene portato via dalle piogge? Perché questo deserto si trova nel bel mezzo del Tularosa Basin che è una conca endoreica, cioè un bacino acquifero senza emissari: l’acqua piovana vi si raccoglie ma non ne può defluire e i depositi di gesso rimangono così intrappolati, mentre poi l’azione del vento e del sole li fa cristallizzare formando delle enormi dune continuamente modellate dai venti.

Altra particolarità è che questo deserto è anche zona militare, essendo occupato su tutto il perimetro dal White Sands Missile Range, un’enorme area desertica disseminata di basi militari e adibita a test missilistici e di nuove tecnologie spaziali. Nei giorni di test l’accesso all’intera area è interdetto e perfino le Interstate circostanti vengono chiuse al traffico. Per questo qualche giorno prima della visita è bene controllare sul sito dell’NPS se sono previste chiusure, anche se in genere i test si svolgono le prime ore del mattino e hanno breve durata. Il White Sands Missile Range è anche tristemente noto perché qui Oppenheimer e altri illustri fisici testarono e fecero esplodere la prima bomba atomica il 16 luglio 1945. Il luogo dell’esplosione, il Trinity Site, si trova nella parte nord di White Sands e non è accessibile al pubblico se non due volte all’anno, il primo sabato di aprile e di ottobre, rigorosamente accompagnati dalle guide. Ci risparmiamo quindi il viaggio dato che non riusciremmo a vedere nulla. Possiamo però tentare di visitare il White Sands Missile Range Museum & Missile Park, nella parte sud di White Sands, in attesa delle ore più “fresche” del tardo pomeriggio da dedicare alla riserva naturale vera e propria.

Sfortuna vuole che oggi sia domenica e quindi teoricamente giorno di chiusura. Ma noi decidiamo di provarci lo stesso. Se anche non potremo entrare magari riusciremo a vedere qualcosa dall’esterno. E infatti arrivati al gate ci viene detto che i turisti non possono entrare, l’accesso è consentito solo ai militari. Ce lo aspettavamo, pazienza. Facciamo dietro-front e parcheggiamo nell’area adiacente all’ingresso. Almeno qualche foto ce la concederanno. Ma niente da fare, la militare di guardia al gate si avvicina dicendoci che non si può fotografare. Va be’, a questo punto risaliamo in macchina e navigatore alla mano cerchiamo di capire come arrivare al White Sands National Monument, la riserva naturale protetta. E mentre siamo lì che cerchiamo arriva una pattuglia della polizia. Ecco, adesso ci arrestano. Sempre a metterci nei guai noi, eh? Il poliziotto ci chiede la fotocamera per controllare se abbiamo delle foto. Sì, certo, ma le avevamo fatte prima che ci dicessero che non si poteva. Niente da fare, dobbiamo cancellarle tutte, il sito è zona militare e non si possono fare foto. Ma se Internet ne è piena! Insomma non c’è verso, ci fanno cancellare tutte le foto e ci intimano di andarcene, a meno che non vogliamo entrare a visitare il parco missilistico. Ma come? La tipa alla guardiola ci ha appena detto che non si può! Mettetevi d’accordo!

Alla fine riusciremo a entrare presentando il passaporto e ricevendo in cambio un permesso d’ingresso. Lo terremo come ricordo dell’ennesima volta in cui abbiamo rischiato l’arresto negli USA! Ho idea che la prossima volta l’ESTA non ce lo rilasciano! Ha ha! All’interno il museo è chiuso, essendo domenica, ma si può visitare il parco missilistico esterno dove sono esposti una cinquantina di esemplari fra missili, razzi spaziali e droni, dei veri e propri cimeli di ingegneria missilistica e aerospaziale che hanno fatto la storia, fra cui anche una piccola (tragica) curiosità: l’involucro che conteneva “Fat Man”, la bomba atomica caduta su Nagasaki il 9 agosto 1945.

La seconda parte del pomeriggio la trascorriamo al White Sands National Monument, la riserva naturale creata dall’NPS per preservare almeno parte del deserto di gesso più grande del mondo. Attenzione: anche qui c’è un posto di blocco prima dell’ingresso, quindi tenete a portata di mano il passaporto. All’interno del parco la prima cosa da fare (oltre alla scorta d’acqua) è percorrere lo scenic drive di 25 km, il Dunes Drive che, inizialmente asfaltato, poi diventa uno strato di gesso compatto assolutamente percorribile anche senza 4×4. Ma la cosa più assurda è quel che si trova una volta arrivati in fondo allo scenic drive: un’enorme area di sosta con tavoli da picnic ombreggiati e perfino l’attrezzatura per il barbecue, in mezzo al deserto! Una cosa surreale che solo gli americani si possono inventare.

Lungo lo scenic drive ci sono diverse aree di sosta, overlook e trailhead, fra cui vale sicuramente la pena percorrere almeno i più brevi, il Playa Trail, il Dune Life Nature Trail e l’Interdune Boardwalk, quest’ultimo su una passerella sopraelevata. Il riverbero abbagliante delle dune di gesso, i giochi di luce, il vento che sibila e spazza le dune creano un’atmosferica magica e una sensazione di pace immensa. Attenzione però a non abbandonare i sentieri e a non allontanarsi troppo dalla strada principale: è pur sempre un deserto e il pericolo di perdere l’orientamento è reale. Le temperature d’estate raggiungono tranquillamente i 38-40°C ma quasi non ce ne accorgiamo. E poi il piacere di togliersi le scarpe e camminare a piedi nudi sulle dune di gesso non ha eguali. Ehi! Ma sono fresche! Sì ma stiamo attenti agli scorpioni però, non si sa mai… E se trovate qualche strano oggetto metallico non cedete alla tentazione di raccoglierlo: potrebbero essere detriti dei test missilistici di cui sopra! C’è anche chi si diverte a scivolare giù per le dune seduti su dei dischi di plastica che si acquistano al Visitor Center. Be’, se volete provate pure, ma resterete delusi: sul gesso non si scivola!

Intanto si avvicina l’ora del tramonto e a questo punto il must è l’appuntamento presso la Sunset Stroll Meeting Area per una passeggiata serale con i ranger, alla ricerca dei piccoli insetti che sbucano fuori al calar della sera, ammirando i giochi di luce degli ultimi raggi di sole che incendiano di arancio le candide dune di gesso. Quando infine raggiungiamo il nostro motel nella vicina Alamogordo è già buio pesto.

 

 

 

12 agosto: Lincoln National Forest – Carlsbad Caverns – Carlsbad

Abbandonati gli aridi deserti ci dirigiamo attraverso le montagne verso la nostra prossima meta. La vegetazione si fa sempre più folta man mano che saliamo di quota: stiamo attraversando la Lincoln National Forest, mentre del deserto di White Sands alle nostre spalle non rimane che una lunga striscia bianca luccicante all’orizzonte in contrasto con il verde scuro delle colline.

Ad un certo punto il paesaggio cambia radicalmente e il piatto panorama desertico del New Mexico torna protagonista. Purtroppo non ci faremo mai l’abitudine, memori degli scenic drive degli anni scorsi fra le rocce variopinte dello Utah, le verdissime colline del “Colorful Colorado” o il tripudio di fauna selvatica del Wyoming. Qui è tutto un po’ più piatto e monotono e l’on the road è meno entusiasmante, richiedendo molta più attenzione alla guida e qualche sosta in più per scongiurare l’abbiocco sempre in agguato. Ma il New Mexico ha altre attrazioni: ecco qua ad esempio distese a perdita d’occhio di pozzi petroliferi. Sì perché ci stiamo avvicinando a Carlsbad, che è una zona estrattiva sfruttata in modo sempre più intensivo negli ultimi anni, tanto che trovare alloggio (e ad un prezzo ragionevole) non è problema da poco. Tutti gli hotel e gli appartamenti sono monopolizzati dalle compagnie petrolifere, quel poco che si trova è caro e di bassa qualità.

Oggi il programma prevede di trascorrere l’intera giornata al Carlsbad Caverns National Park, cioè nientemeno che il complesso di grotte più esteso del Nordamerica, con circa 120 cavità distribuite su 189 kmq, di cui però solo poche sono accessibili. La caverna principale che dà il nome al parco, la Carlsbad Cavern, è un insieme di grotte lungo 48 km ed è l’unica liberamente visitabile dai turisti, seppur in minima parte. Altre grotte come la Slaughter Canyon Cave o la Spider Cave sono accessibili con degli adventure tours guidati piuttosto impegnativi, che richiedono a volte di strisciare fra gli stretti budelli sotterranei armati di torcia frontale come dei veri speleologi.

All’interno della Carlsbad Cavern si possono fare due self-guided tours, il Natural Entrance Trail e il Big Room Trail, ognuno lungo circa 2 km e con un tempo di percorrenza di 1-1,5 ore. Ma non contenti noi ci abbiamo infilato anche un ranger-guided tour a pagamento, il King’s Palace Tour delle 13,30, e quando arriviamo sono già le 11,00, dobbiamo sbrigarci! Andiamo subito alla cassa a ritirare il biglietto che avevamo prenotato qualche giorno prima sul sito del parco. Si può anche acquistarlo direttamente in loco ma il tour è a numero chiuso e di solito c’è il tutto esaurito. Il sito dell’NPS richiede imperativamente calzature adeguate, pena il divieto d’ingresso alle grotte. Ora non dico di portarvi le scarpe da trekking, ma delle scarpe da tennis sì. Evitate almeno sandali o infradito se non volete ritrovarvi con il sedere per terra: là sotto è decisamente umido e piuttosto buio.

A questo punto abbiamo circa due ore prima del tour guidato, giusto il tempo di fare il Natural Entrance Trail, che parte dall’ingresso principale delle grotte (il Natural Entrance, cioè l’apertura verso l’esterno da cui sono entrati i primi esploratori) e scende per circa un km lungo un ripido sentiero sinuoso fra stalattiti e stalagmiti. La domanda nasce spontanea: dovremo poi anche risalire? Per fortuna no, arrivati in fondo alla grotta si può comodamente risalire con l’ascensore. E come nelle migliori tradizioni degli americani, dopo che i ranger ci hanno fatto un pipozzo di un quarto d’ora sul “non toccare di qua” e “non appoggiarsi di là” e “non mangiare o bere” e perfino quasi “non respirare!” per non danneggiare le formazioni rocciose, quando arrivi in fondo che ci trovi? Bar, ristoranti, tavoli, sedie… il tutto su una bella superficie cementificata. No comment.

Il Natural Entrance Trail non ci impressiona più di tanto. Il tour guidato che abbiamo scelto invece (il King’s Palace Tour) è più spettacolare perché scende più in profondità nelle grotte, portando i visitatori ad ammirare enormi camere sontuosamente decorate che per motivi di conservazione non sono accessibili con i self-guided tours. E questo mi fa pensare che in Italia che io sappia tutte le grotte richiedono visite guidate, il che è senz’altro il modo migliore per preservarle. Due note negative a proposito del ranger-guided tour. Primo: si sta là sotto un paio d’ore e fa piuttosto freschino (mi pare ci siano 13°C costanti tutto l’anno), quindi portatevi una felpa se non volete buscarvi un raffreddore. Secondo: se vi interessano le spiegazioni dei ranger, auguri. Parlano velocissimo e con accento incomprensibile e non hanno alcuna pietà per quei poveri (e pochi) turisti stranieri che hanno il coraggio di avventurarsi fin là. Quindi rassegnatevi: non capirete quasi niente.

A questo punto ne avremmo abbastanza di stalattiti e stalagmiti, anche perché, diciamocelo, saranno pure le grotte più grandi del Nordamerica ma quanto a spettacolarità le più piccole grotte “nostrane” come Frasassi, Castellana o Postumia non hanno nulla da invidiargli. Ma siccome siamo qui e dobbiamo starci fino al tramonto (poi vedrete perché), tanto vale che ci facciamo anche l’ultimo self-guided tour, il Big Room Trail. Dimenticavo: solo il Natural Entrance Trail è accessibile dall’esterno, per tutti gli altri occorre entrare nel Visitor Center e scendere con l’ascensore a 750 piedi di profondità (circa 230 m), fino a raggiungere la “zona ristorante” per intenderci. Da qui partono i ranger-guided tours e anche il Big Room Trail. Terminato il tour, dopo quasi 6 ore nel sottosuolo non vediamo l’ora di uscire in superficie a “scongelarci” al tepore del sole. Tepore si fa per dire… fuori ci sono 35°C e dopo solo dieci minuti quasi rimpiangiamo il refrigerio delle grotte.

Ma intanto fra una boccata d’aria, una visita al museo e uno spuntino arriva l’ora del tramonto e a questo punto non possiamo perderci lo spettacolo serale: i pipistrelli! Le grotte ne ospitano 17 specie diverse. Nessuno conosce il numero preciso, ma si tratta di svariate centinaia di migliaia di esemplari. L’appuntamento serale con i pipistrelli è intorno alle 19,00 nell’anfiteatro davanti alla Natural Entrance, dove i turisti aspettano pazienti in religioso silenzio: il rumore infatti disturba i pipistrelli che potrebbero non uscire dalla grotta. Ad un certo punto, come ad un muto segnale prestabilito, una nuvola nera interminabile di volatili esce dalla cavità e si alza in cielo contro il rosso del tramonto. Un momento magico a cui si aggiunge addirittura una coppia di cervi che sbucano dalla boscaglia e lentamente sfilano via di fianco all’anfiteatro. La scia di pipistrelli sembra non finire mai, lo spettacolo dura ben 45 minuti e quando ce ne andiamo ormai è buio. Attenzione! Foto e video sono severamente vietati per non disturbare i volatili. Quindi non provate a fare i furbi con il telefonino se volete risparmiarvi una figuraccia: i ranger non scherzano!

13 agosto: Lincoln – Billy the Kid Scenic Byway – Roswell

Il mattino dopo ripartiamo dal nostro motel di Carlsbad in direzione di Lincoln. A dir la verità la giornata doveva essere dedicata alla visita di Roswell, ma raccolta qualche informazione in rete ci rendiamo conto che con gli UFO ce la sbrigheremo presto, e d’altra parte sarebbe impensabile cercare di raggiungere la prossima tappa in giornata perché le distanze fra un’attrazione e l’altra in New Mexico sono enormi. Quindi ci serve un riempitivo. Che fare?

Guarda caso scopriamo che nei paraggi ci ha vissuto un famigerato fuorilegge dell’Old Wild West: Henry McCarty, alias Billy the Kid. Sì, proprio quello dei fumetti e dei film western. Questo personaggio già da giovanissimo si era distinto per non essere proprio uno stinco di santo, ma la sua notorietà è dovuta soprattutto al ruolo avuto nella cosiddetta Guerra della Contea di Lincoln, una disputa fra mercanti di bestiame per il monopolio dell’attività avvenuta intorno al 1880. E siccome le dispute a quei tempi di solito si regolavano con la pistola, ad un certo punto ovviamente ci scappò il morto, cioè uno dei mercanti di bestiame delle due fazioni in lotta. La conseguenza fu che i suoi dipendenti, fra cui anche McCarty alias Billy the Kid, si unirono in un gruppo chiamato i “Regolatori”, che come si capisce già dal nome avevano intenzioni tutt’altro che pacifiche. La loro spedizione punitiva imperversò per mesi nella zona fino a culminare nella Battaglia di Lincoln, uno scontro a fuoco tra banditi e forze dell’ordine durato ben quattro giorni. McCarty però ne uscì vivo e riuscì a scappare; la sua latitanza ebbe fine solo quando sulla sua strada incontrò un altro personaggio leggendario, lo sceriffo Pat Garrett. Dopo mesi di inseguimenti, l’arresto, la prigionia e un’evasione, Billy the Kid fu assassinato a Fort Sumner nel 1881 dove ancor oggi si trova la sua tomba.

E questa è la storia, divenuta poi leggenda. Ma oltre ai film western e ai fumetti, a rievocare il fuorilegge e i luoghi in cui è vissuto in New Mexico si sono inventati un vero e proprio scenic drive, il Billy the Kid Scenic Byway che parte dalla città di Lincoln e, attraversando la Lincoln National Forest, tocca le seguenti tappe: Fort Stanton, Capitan, Alto, Ruidoso, Ruidoso Downs, Hondo, San Patricio. Il giro panoramico di ben 84 miglia ci impegna la mattina, tra foreste, colline, siti storici, ranch e allevamenti di bestiame, mentre per il pomeriggio abbiamo in programma qualcosa di molto più emozionante: andiamo a caccia di alieni!

“Greetings from Roswell” ci accoglie un coloratissimo cartello-cartolina gigante disseminato di omini verdi, mentre poco più in là fa bella mostra di sè il Roswell Visitors Center. Ma ho visto bene? “Visitors” con la “s”? Saranno mica per caso quei “visitors” là?! Eh sì, perché nei pressi della cittadina di Roswell nel 1947 pare si sia schiantato un “oggetto volante non identificato”. O almeno così lo definì il primo comunicato stampa della base aerea di Roswell, salvo poi smentire l’accaduto affermando che si trattava solo di un “pallone sonda”. Peccato che alcuni testimoni, per non parlare del proprietario del ranch in cui vennero ritrovati i resti, sostenessero proprio la prima versione dell'”incidente UFO”, anzi nei giorni successivi circolarono persino voci per cui erano stati trovati dei corpi nel velivolo schiantato che non avevano per niente sembianze umane, e che quei resti furono trasportati in tutta segretezza alla base militare del Nevada nota come Area 51 (altro ricordo del nostro primo tour del 2015).

Insomma, l’accaduto fu gestito dalle autorità in modo talmente ambiguo e contraddittorio che invece di tranquillizzare la popolazione destò ancor più sospetti, alimentando la convinzione generale che il governo avesse qualcosa di sensazionale da nascondere. Da quel momento Roswell, da tranquilla cittadina sconosciuta sperduta nel deserto del New Mexico, è divenuta meta di interesse pseudoscientifico per gli appassionati ufologi, folcloristico per il turista disincantato, a seconda di quale sia la verità a cui si preferisce credere. Certo è che questo alone di mistero che persiste ancor oggi non può che far piacere alla città di Roswell, che praticamente vive del richiamo turistico generato da quell’evento e ne ha fatto un vero e proprio business. Ecco quindi che per le strade siamo circondati da omini verdi a grandezza d’uomo lungo i marciapiedi, sulle vetrine dei negozi o nei ristoranti, dischi volanti che troneggiano qua e là e perfino lampioni a forma di alieno. Per non parlare dei nomi dei negozi: Alien Zone, Alien Invasion, Galaxi Entertainment, fino ad arrivare all’attrazione top: l’International Ufo Museum & Research, un museo che raccoglie testimonianze, foto e reportage di quell'”incontro ravvicinato” e che tra il serio e il faceto racconta le diverse possibili verità.

Insomma, che dire di Roswell? Una goliardata e niente di più, un simpatico diversivo fra un’attrazione naturalistica e l’altra. Se poi gli alieni non vi appassionano nei dintorni della città ci sono un paio di parchi interessanti: la riserva naturale del Bitter Lake National Wildlife Refuge e il Bottomless Lakes State Park, una serie di laghi con profonde acque scure presso cui è possibile praticare diverse attività sportive. Noi ci facciamo una puntatina a conclusione della giornata, prima che il solito acquazzone pomeridiano ci faccia scappare in motel. Ah, questo clima monsonico…

 

 

14 agosto: Palo Duro Canyon – Cadillac Ranch – Amarillo

Miglia e miglia di strade solitarie in mezzo al deserto: come lo abbiamo trovato, così lasciamo il New Mexico meridionale per rientrare nuovamente in Texas. Anche questo stato non è che sia popolatissimo, eh, però qui almeno al posto del deserto ci troviamo distese verdi di coltivazioni e allevamenti di bestiame, pale eoliche a perdita d’occhio, pompe eoliche, cioè quella specie di mulini a vento per estrarre l’acqua dal sottosuolo, ma soprattutto… ranch stratosferici! Sì, proprio quelli con il cancello d’ingresso sulla strada con la classica insegna con le corna, come si vede nei film. Insomma siamo nel più iconico ovest americano, manca solo di veder spuntare J.R. di Dallas in groppa al cavallo con il cappello da cowboy. La cosa incredibile è che puoi percorrere centinaia di chilometri senza incontrare un paese, un’auto, un essere umano. E soprattutto senza trovare un distributore di benzina!! Poi all’improvviso vedi sul ciglio della strada un ufficio postale, in mezzo al nulla. E pensi: ma a che serve? Finché più in là non scorgi un ranch megagalattico e capisci che quell’ufficio postale deve servire una sola famiglia! Proprio un altro mondo.

Ma il Texas non è solo mandrie di mucche e cowboy. Il secondo stato degli USA per estensione dopo l’Alaska ha anch’esso le sue meraviglie naturalistiche e noi oggi andiamo a scoprirne una: Palo Duro Canyon State Park, nei pressi di Amarillo. Eh sì, anche il Texas ha il suo canyon e devo dire che ha ben poco da invidiare a quelli più famosi dell’Arizona, anzi se volete è un piccolo antipasto. Da qui in avanti infatti inizieranno gli stupefacenti parchi di roccia rossa che domineranno la seconda parte del nostro tour in un crescendo di emozioni. Il “Grand Canyon of Texas”, com’è chiamato Palo Duro, è il secondo canyon degli Stati Uniti per estensione dopo il più famoso fratello maggiore dell’Arizona. Lungo 120 miglia e profondo fino a 800 piedi, il canyon ha iniziato a formarsi circa un milione di anni fa dall’erosione del Red River. Originariamente popolato dalle tribù dei Kiowa, Comanche, Apache e Cheyenne, nel 1874-75 fu teatro di sanguinose battaglie fra le popolazioni native e l’esercito americano in quella che viene ricordata come The Red River War, i cui superstiti, privati di cibo e cavalli, furono costretti alla fuga verso le riserve dell’Oklahoma.

Il canyon è un parco statale e quindi escluso dal pass dell’NPS (ingresso 5.00$ a persona). È percorso da uno scenic drive di 25 km e da diversi trail, il più famoso dei quali è il Lighthouse Trail di 9 km (roundtrip) che conduce ad un’iconica formazione rocciosa: il faro (Lighthouse) di roccia color rosso acceso simbolo del parco. Siccome il trail è abbastanza lunghetto, decidiamo di percorrere subito tutto lo scenic drive per dedicare l’intero pomeriggio al trekking. Il percorso è quasi tutto pianeggiante tranne un ultimo breve tratto in salita, solo che quando partiamo sono le 2,00 del pomeriggio e il sentiero è totalmente esposto ai raggi del sole. Le rare nuvole di passaggio sono una benedizione e quasi quasi c’è da augurarsi che sopraggiunga uno di quei temporali lampo tipici del clima monsonico, non fosse per i cartelli disseminati in giro che mettono in guardia dal pericolo di flash flood. Eh, in effetti, siamo sempre in un canyon… Quando arriviamo in cima al rilievo di fronte al Lighthouse siamo arrostiti dal sole e madidi di sudore. Non so come faccia quel gruppetto di ragazzi americani che ad un certo punto incontriamo lungo il sentiero con i jeans e gli stivali da cowboy! Ma dico io, sti americani…

Il trail ci impegna tranquillamente 2-3 ore, dopo di che ci rimettiamo in viaggio verso la nostra prossima tappa: Amarillo, per la prima di innumerevoli incursioni sulla mitica Route 66, “The Mother Road”, come fu battezzata da John Steinbeck nel romanzo Furore. Nel periodo della Grande Depressione degli anni ’30, con il crollo di Wall Street e le tempeste di sabbia (Dust Bowl) che distrussero i raccolti e inaridirono i terreni, migliaia di famiglie di agricoltori del Midwest, ridotte sul lastrico, furono costrette ad una migrazione di massa verso la California in cerca di lavoro e di una nuova vita. La Route 66 rappresentò allora la via di fuga per eccellenza, la strada della speranza, il “sogno americano”. In seguito, con l’avvento delle moderne highway e Interstate, la Route 66 è stata progressivamente abbandonata, benché ne sopravvivano ancor oggi alcuni tratti, più o meno lunghi e ben conservati, sotto il nome di Old Route 66 o Historic Route 66.

Percorrere la Route 66 è un’esperienza unica: significa fare un salto indietro nel tempo fra desolate ghost town, trading post e drive-in anni ’50, vecchie gas station e motel old-fashioned divenuti poi musei. Da Chicago a Los Angeles si snoda per 2448 miglia attraversando ben 8 stati: Illinois, Missouri, Kansas, Oklahoma, Texas, New Mexico, Arizona e California. Se volete percorrerla dovete però tener presente una cosa: la Route 66 è stata rimossa ufficialmente dagli stradari ufficiali nel 1985 e perciò non è sempre facile seguirla. In alcuni stati non è nemmeno segnalata e nessun navigatore vi aiuterà a percorrerla, l’unico strumento utile sono le mappe cartacee che si possono anche scaricare da alcuni siti specializzati. Non solo, in alcuni punti la strada si biforca o addirittura si interrompe del tutto, quindi non è raro trovarsi improvvisamente in mezzo a un campo e dover fare retromarcia per cercare una via alternativa. È anche questo uno dei motivi per cui abbiamo abbandonato l’idea di percorrerla integralmente, limitandoci a qualche “incursione” per visitare le principali “roadside attractions”, come vengono chiamate le attrazioni più singolari lungo il percorso.

La prima che incontriamo nei pressi di Amarillo è il Cadillac Ranch, una delle attrazioni più famose e visitate della Mother Road, tanto che perfino il “Boss” Bruce Springsteen le ha dedicato una celebre canzone divenuta uno dei simboli dell’americanità. La bizzarra attrazione è ben visibile già dall’Interstate: dieci Cadillac coloratissime piantate a muso in giù nel terreno in posizione inclinata. Un’altra delle solite americanate, viene da pensare. E invece a dispetto delle apparenze si tratta di una vera e propria opera d’arte, ideata nei primi anni ’70 da un gruppo di architetti hippie di San Francisco noti come Ant Farm e finanziata nientemeno che da un miliardario di Amarillo. Questi originali artisti fecero bruciare dieci Cadillac per metà lasciando intatta solo la parte posteriore e le interrarono seguendo l’ordine cronologico della loro data di produzione, disponendole in fila indiana inclinate verso ovest come la Grande Piramide di Giza. Dei veri pazzi insomma. Ma non è finita qui, perché ogni turista che visita l’attrazione può dare il proprio contributo artistico con delle bombolette di vernice spray, così da renderla un’opera in continuo divenire. E allora corriamo anche noi a mettere i nostri graffiti sulla nostra Cadillac preferita! Ma dobbiamo sbrigarci a immortalarla perché di lì a poco la nostra opera d’arte sparirà, coperta dai graffiti del prossimo hippie di passaggio.

Dal Cadillac Ranch in poi inizia la parte più turistica e affollata del nostro tour. La prima parte del viaggio era infatti concentrata su attrazioni abbastanza di nicchia in zone remote e lontane dal turismo di massa, tanto che gli italiani erano praticamente assenti. Da qui in avanti invece non sarà così: la Route 66 è un must per il turismo internazionale ed è amatissima dagli italiani. Ce ne accorgiamo bene anche nella nostra prossima tappa: il Big Texan Steak Ranch di Amarillo, a poca distanza dal nostro motel. Come resistere alla tentazione di una cena in questo leggendario ristorante? Il locale non passa certo inosservato: una mucca gigante vi accoglie nel cortile d’ingresso, per non parlare delle auto d’epoca con corna gigantesche sul cofano disposte ad arte nel parcheggio. A parte l’ambientazione kitsch, i cimeli storici, le stravaganze, il pezzo forte del locale è la sfida che vi proporranno: ingurgitare una bistecca di 72 once (2 kg!) entro il tempo massimo di un’ora, senza alzarsi dal tavolo e senza aiuti esterni. Se si riesce nell’impresa la cena è gratis, se si perde bisogna pagarla per intero (72.00$!). Noi non ci proviamo neanche e ci accontentiamo di qualcosa di più “leggero”: sandwich e quesadillas. Da leccarsi i baffi!

15 agosto: Route 66 – Turquoise Trail – Santa Fe

Oggi sarà più che altro una giornata di trasferimento: ci aspetta un bel tappone di 530 km che sulla Interstate rischia di diventare un po’ noioso. Ma noi ci infileremo ogni tanto qualche piccola deviazione sulla Route 66 per visitare le maggiori attrazioni. Eccole qui:

  • Vega – Prima tappa alla Magnolia Gas Station, un vecchio distributore di benzina molto ben conservato, con la classica colonnina del carburante anni ’50, una bella bicicletta con un coloratissimo cestino di fiori davanti all’insegna e lo stemma della “Route 66 Texas” sull’asfalto. Dopo di che cerchiamo il Dot’s Mini Museum senza trovarlo. Entriamo allora in un altro museo della Route 66 di cui non ricordo il nome, in cui ci regalano una cartolina ricordo e ci invitano a mettere una puntina su una carta geografica gigante in corrispondenza del nostro paese. E guarda caso l’Italia è già affollatissima di puntine: lo sapevamo che gli italiani impazziscono per la Route 66!
  • Adrian – Tappa obbligata al Midpoint Café, proprio a metà della Route 66, a 1139 miglia da Chicago e da Los Angeles.
  • Glenrio – Spettrale ghost town che si trova sul vecchio tracciato sterrato della Old Route 66 sul confine fra Texas e New Mexico.
  • Tucumcari – Rientrati in New Mexico la prima tappa di un certo rilievo è Tucumcari, dove si trovano diverse roadside attractions in stile messicano-indiano: il Teepee Curios, un negozio di souvenir che ha per ingresso un’enorme tenda indiana; il Blue Swallow Motel, un motel d’epoca con una bellissima insegna colorata e una Pontiac parcheggiata davanti all’ingresso; La Cita, un ristorante messicano sormontato da un vistoso sombrero.
  • Santa Rosa – L’attrazione top è il Route 66 Auto Museum, immediatamente riconoscibile dall’auto gialla sospesa in alto sopra un palo, mentre altre auto d’epoca esposte nel cortile le fanno da cornice. Ehi! Ma c’è anche Cricchetto! Intorno a Santa Rosa ci sono poi diversi laghetti fra cui lo spettacolare Blue Hole… che però noi ci perdiamo. Pazienza, la strada è ancora lunga, non indugiamo oltre.

Dopo Santa Rosa la Route 66 si biforca: la diramazione verso nord sarebbe il percorso più breve per Santa Fe, ma noi invece proseguiamo fino all’imbocco di un altro scenic drive: è la NM-14 o Turquoise Trail National Scenic Byway, che con le sue 62 miglia collega Albuquerque a Santa Fe attraversando storiche cittadine minerarie rimaste quasi inalterate nel tempo come Cedar Crest, Golden, Madrid, Cerrillos. Lungo il percorso troverete botteghe di artigiani, negozi di souvenir, antiche abitazioni in legno con la classica sfilza di cassette della posta colorate sul ciglio della strada, vecchie locomotive arrugginite, musei delle antiche miniere di carbone. Sono zone ricche di storia, originariamente abitate dagli antichi pueblo, poi esplorate dai missionari spagnoli, occupate dalle truppe dei Confederati e attraversate da Kit Carson nella “Lunga Marcia” forzata del popolo Navajo verso la riserva di Fort Sumner. Insomma un interessante diversivo rispetto alla monotona Interstate.

Meta finale del nostro percorso è Santa Fe, l’affascinante e originalissima capitale del New Mexico. Dimenticate lo stereotipo delle grandi città americane: Santa Fe non ha nulla a che vedere con le classiche metropoli, gli svettanti grattacieli in cemento armato, il traffico caotico. “The city different”, com’è soprannominata Santa Fe, è una città piccolina, la quarta per dimensioni nel New Mexico con i suoi 80.000 abitanti circa, e il suo centro storico, l’Old Town, non solo è a misura d’uomo ma ha uno stile architettonico tutto suo, che richiama quello degli innumerevoli villaggi pueblo circostanti: è lo stile adobe, un mix di argilla, sabbia e paglia dal caldo colore arancio-rosato con il quale sono costruiti gli edifici alti al massimo 2-3 piani.

Quando arriviamo a downtown è già tardo pomeriggio, ma una passeggiata di un paio d’ore è già sufficiente per un primo assaggio del mix di culture (nativa, ispanica, anglosassone) e del caldo clima di accoglienza della città. Lungo le vivaci e colorate vie del centro in stile coloniale spagnolo si respirano i profumi tipici della cucina messicana con i suoi tacos e le sue tortillas, mentre dai porticati penzolano i caratteristici peperoncini rossi portafortuna. A Santa Fe Plaza si stanno già allestendo le bancarelle di artigianato locale del Santa Fe Indian Market che si terrà proprio questo fine settimana. Sfortuna vuole che noi ripartiremo proprio sabato… Non ci riesce nemmeno di visitare le belle chiese all’interno: tutte chiudono al massimo alle 17,00. Ci limitiamo a scattare qualche foto dall’esterno:

  • la Basilica of St. Francis of Assisi in stile romanico, con la statua di San Francesco nel piazzale d’ingresso e l’enorme rosone sulla facciata;
  • la Loretto Chapel in stile gotico, famosa perché all’interno di una cappella ospita un’antica scala a chiocciola in legno, originariamente costruita senza chiodi né corrimano: un mistero insomma, e infatti non a caso si chiama Miraculous Staircase; della scalinata originaria in realtà rimane solo una foto, perché nel tempo è stata dotata di sostegni e ringhiera per renderla più sicura;
  • la San Miguel Mission in stile adobe, costruita all’inizio del ‘600 nel Quartiere di Analco e considerata la chiesa più antica degli Stati Uniti continentali;
  • il Santuario de Guadalupe con la statua della Madonna alta 3 metri e mezzo nel piazzale antistante.

E dopo questo primo assaggio della città e una rapida cena in un fast food rientriamo in motel. Anche se non sembra siamo a 2000 metri e la sera fa decisamente freschino. In effetti sarà così per tre quarti del tour: forti escursioni termiche fra giorno e notte, con 13-15°C al mattino presto e alla sera e 35-38°C nelle ore più calde. Ma niente paura: abbigliamento “a cipolla” e via!

16 agosto: Taos Pueblo – Abiquiu – Ghost Ranch – Santa Fe

Chi ha visitato gli States almeno una volta sa che gli americani sono amanti degli scenic byways, quelle stupende strade panoramiche, magari più tortuose e lunghe delle Interstate, ma che regalano scorci suggestivi fra autentiche meraviglie naturalistiche. E per raggiungere la nostra meta di oggi ce ne sono addirittura due: la Low Road to Taos (NM-68) a nord, e la High Road to Taos (NM-503, NM-76, NM-518) più a sud. Gli aggettivi “low” e “high” si riferiscono all’elevazione: la Low Road attraversa la valle solcata dal Rio Grande; la High Road, un po’ più lunga e sinuosa, sale di quota attraverso le Sangre de Cristo Mountains offrendo suggestive vedute panoramiche. Se il tempo lo permette consigliamo di percorrerle entrambe, una all’andata e l’altra al ritorno. La High Road incrocia diversi villaggi indiani e antichi pueblo in stile adobe, ma anche tante piccole chiese, santuari e missioni cristiane. Fra le tappe che vale la pena di ricordare: Chimayo (Santuario), Cordova, Truchas, Las Trampas (San Jose de Garcia Church), Peñasco, Ranchos de Taos (San Francisco de Asis Church). Volendo ci si potrebbe passare l’intera giornata.

Noi però non abbiamo l’intera giornata, anzi dopo esserci quasi persi fra le montagne dobbiamo darci una mossa se vogliamo avere tempo a sufficienza per visitare la prossima attrazione: è Taos Pueblo, uno dei più noti e meglio conservati villaggi pueblo del New Mexico e l’unico ad essere stato inserito fra i siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO. I Pueblo sono le popolazioni native che originariamente abitavano gli stati del sud-ovest americano prima dell’avvento dei conquistadores. Come le riserve indiane, hanno una forma di governo sostanzialmente autonoma che li rende uno stato nello stato, con regole e leggi proprie. Ve ne accorgerete subito dall’evidente proliferazione dei casinò, che spesso costituiscono la loro principale fonte di guadagno oltre al turismo, grazie ai vantaggi fiscali di cui godono rispetto a quelli sottoposti alla legislazione statunitense.

Il New Mexico ospita ancor oggi 19 villaggi pueblo, che nella stragrande maggioranza dei casi occupano territori di incomparabile bellezza, rendendoli meritevoli di una visita sia dal punto di vista culturale che paesaggistico. Se volete visitarne qualcuno è consigliabile consultare prima i loro siti web per avere informazioni su giorni di visita, chiusure per festività, tariffe e regolamenti. Sappiate che di solito le foto non sono consentite, a meno di acquistare l’apposito pass. Altra raccomandazione è quella di essere rispettosi dei luoghi e della privacy degli abitanti, di non entrare in siti preclusi ai turisti o salire le scale a pioli, di chiedere sempre il permesso prima di fare foto alle persone, insomma di usare sempre il buonsenso e l’educazione.

Taos Pueblo è accessibile pagando un ingresso di 16.00$ a testa ed è uno dei pochi villaggi pueblo in cui le foto sono permesse e gratuite. Non è nemmeno necessaria la guida ma si può visitare in autonomia. Il villaggio è veramente un bijoux, con i suoi edifici in adobe disposti in cerchio attorno ad un torrentello, straordinariamente ben conservati anche grazie alla manutenzione continua dei suoi abitanti. Attualmente vivono regolarmente all’interno del villaggio circa 150 persone. La principale fonte di sostentamento è ovviamente il turismo e in molti espongono bancarelle con manufatti e oggetti di artigianato locale, belli quanto esageratamente costosi. Per fortuna i venditori non sono eccessivamente insistenti e noi riusciamo a sgattaiolare via senza farci spennare.

Terminata la visita dovremmo completare la scenic byway percorrendo stavolta la Low Road (NM-68). Invece sbagliamo strada e deviamo verso nord, trovandoci dopo un po’ in mezzo al nulla, su una strada secondaria desolata dove non c’è anima viva, tranne un lama solitario che bruca fra la radura. Un lama?? Inchiodiamo e facciamo retromarcia, mentre un SUV che sopraggiunge ci strombazza dietro infuriato. Eh, mamma mia che permalosi sti americani! Comunque sì, pare proprio un lama, o un suo parente stretto. Ma che ci fa a queste latitudini?? Mah, non si finisce mai di imparare. Intanto il paesaggio si fa sempre più desertico, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro, tanto vale proseguire e da qualche parte sbucheremo. E infatti sbuchiamo al Rio Grande del Norte National Monument, scoprendo così per caso un’altra meraviglia: il Rio Grande Gorge Bridge, uno scenografico ponte che attraversa una profonda gola in cui scorre il Rio Grande. Che spettacolo! Ma cosa sono quei puntini colorati là in basso? Ah, dei gommoni che fanno rafting sulle rapide del fiume! Che spericolati! E mentre siamo lì sul ponte a goderci il panorama mi cade l’occhio su uno strano oggetto affisso alla ringhiera con una scritta inquietante: “Crisis hotline. There is hope, make the call”. Ha proprio l’aria di essere un dispositivo per le chiamate di emergenza! Si vede che lo strapiombo sul fiume ogni tanto fa venire strane idee in testa a qualche disperato…

Fra deviazioni e soste panoramiche è ormai passata l’ora di pranzo quando arriviamo alla nostra prossima meta: Abiquiu, una piccola cittadina piuttosto defilata che non avrebbe in sé nulla di particolare se non fosse per i panorami straordinariamente suggestivi che la circondano. Non a caso questi luoghi sono stati fonte di ispirazione per una famosa artista americana, la pittrice Georgia O’Keeffe, che trascorse in queste zone parte della sua vita. Uno dei siti più straordinari è il remoto Ghost Ranch, una struttura gestita dalla Chiesa Presbiteriana che, oltre ad essere un museo, ospita i turisti per una vacanza naturalistica e spirituale fra le meraviglie della natura, offrendo gite a cavallo, trekking guidati e molto altro.

E infatti il motivo per cui siamo qui oggi è che questo è il punto di partenza di alcuni trail stupendi fra le rocce variopinte, fra cui il più noto è il Chimney Rock Trail, un percorso di 5 km che conduce ad un’iconica formazione rocciosa color arancio vivo che ricorda appunto un grosso camino. Piccolo appunto: per accedere al Ghost Ranch bisognerebbe registrarsi al Welcome Center pagando un ingresso di 5.00$ a testa, ma se non vi interessa visitare le strutture e volete solo fare hiking potete “sgattaiolare” verso l’imbocco del sentiero senza passare per il Welcome Center, che è quello che fanno in genere tutti gli hikers. Essendo zone remote e lontane dal turismo di massa il sentiero non è molto frequentato, ma dalla sommità davanti al Chimney Rock si gode di un panorama unico sulle rocce arancio vivo e sulla valle rossastra circostante. Peccato che i nuvoloni scuri minacciosi sopra di noi non promettano niente di buono: si avvicina un bel temporale con tuoni e fulmini e una vera e propria tempesta di sabbia, che ci fa scappare giù a tutta velocità in men che non si dica.

Visto che il tempo si è guastato non ci resta che rientrare a Santa Fe e continuare la visita della città. Cosa ci rimane da vedere:

  • State Capitol: come gli altri edifici della città è una struttura molto singolare: realizzato in un mix di stili (New Mexican e neoclassico), “The Roundhouse” è l’unico Campidoglio degli Stati Uniti ad avere una forma circolare.
  • Quartiere di Analco: siamo alla ricerca della sedicente “Oldest House in the USA” risalente al 1646 circa. Che sia veramente la casa più vecchia degli Stati Uniti è tutto da dimostrare, ma non facciamoci troppe domande e passiamo oltre.
  • Canyon Road: eccoci giunti nel quartiere artistico di Santa Fe con i suoi laboratori e botteghe di artigiani e le sue 100 gallerie d’arte. Almeno così dicono, noi non le abbiamo contate. Alcune delle opere esposte sono veramente singolari e non passano inosservate nemmeno se non si è appassionati d’arte: un giardino di “piante di metallo”, sculture futuristiche dalle forme contorte e dai colori accessi, animali giganti, il tutto in un dedalo di vicoletti fra cui passeggiano eleganti signore, in un’atmosfera di gran classe e raffinatezza. Ci sentiamo un po’ fuori posto. Meglio tornare nella calorosa e vivace Old Town per un ultimo saluto alla città.

17 agosto: Kasha-Katuwe Tent Rocks – Bandelier – Valles Caldera – Jemez Springs – Albuquerque

Anche oggi si prospetta una giornata intensa, con tanti chilometri da macinare e tante attrazioni da visitare. Levataccia, quindi, e occhio agli orari dei parchi per farci stare tutto. La prima tappa è un parco statale dal nome impronunciabile, Kasha-Katuwe Tent Rocks National Monument. Siamo sempre in territorio indiano, come testimonia il vicino villaggio di Cochiti Pueblo, da cui l’origine dello strano nome del parco. Iniziamo da qui prima di tutto perché apre alle 8,00 e secondo perché sappiamo che ha pochi parcheggi, quindi conviene arrivare presto. Ma a quanto pare non lo sappiamo solo noi… alle 7,40 c’è già la fila di auto davanti all’ingresso in attesa dell’apertura.

Questo parco sensazionale di origine vulcanica è caratterizzato dalla presenza di bellissimi pinnacoli (hoodoos) di roccia biancastra dalla forma conica che ricordano molto i panorami della Cappadocia in Turchia. All’interno si possono percorrere due trail: il più semplice, il Cave Loop Trail di 2 km, e uno più impegnativo, lo Slot Canyon Trail di 5 km, che si snoda tra profondi canyon stretti fra le pareti di roccia e gli spettacolari pinnacoli. Quest’ultimo sentiero, molto più avventuroso, sale sempre più in alto fino a raggiungere un punto di osservazione molto panoramico sugli hoodoos sottostanti. Il percorso richiede un minimo di agilità per il fatto che a volte il canyon si fa veramente stretto e bisogna strisciare fra le pareti o camminare accovacciati. Attenzione poi a dove mettete i piedi: al ritorno c’era un bel serpente a sonagli acciambellato fra la vegetazione su un lato del sentiero. Era talmente ben mimetizzato che se non ce lo avessero indicato altri turisti non lo avremmo mai notato!

A questo punto ci sarebbe uno scenic drive su uno sterrato di 6 km che conduce al Veteran’s Memorial Scenic Overlook. Prendiamo l’auto e ci mettiamo in strada ma… ops! È sbarrata. Peccato. Facciamo dietro-front e usciamo dal parco in direzione della nostra prossima meta: Bandelier National Monument. Sono altre due ore di strada perché occorre ritornare verso Santa Fe e poi dirigersi verso nord. E pensare che sulla carta è vicinissimo a Kasha-Katuwe e ci sarebbe addirittura una scorciatoia interna che collega i due parchi, ma è uno sterrato adatto solo ai 4×4 e impraticabile per le auto. Il Bandelier ha anche un altro problemino: è accessibile con il proprio mezzo solo entro le ore 9,00 o dopo le 15,00. Dalle 9,00 alle 15,00 si deve prendere per forza lo shuttle al Visitor Center a White Rock (a 13 km dal parco), che però ha una frequenza di 20-30 minuti e l’ultima corsa di rientro alle 17,00. Un bel casino, anche perché il parco è piuttosto grande e se si arriva tardi si rischia di non avere molto tempo per la visita.

Noi arriviamo verso mezzogiorno e, fatti due conti, decidiamo che ci conviene pranzare e aspettare le 15,00 per entrare con la nostra auto. Su consiglio del Visitor Center troviamo un bel posticino per pranzo: White Rock Canyon Overlook, un’area attrezzata con tavoli da picnic e con una stupenda vista sulla valle del Rio Grande e sulle Sangre de Cristo Mountains. Ma da qui alle 15,00 c’è ancora molto tempo, che si fa? Semplice. Nelle vicinanze ci sono le Tsankawi Ruins, una porzione separata del Bandelier National Monument dove avere un primo assaggio del parco: un sentiero di 2,5 km con scale e scalette gira attorno ad una montagna dove si possono ammirare i primi cliff dwellings, le abitazioni scavate nella roccia, e diversi petroglifi.

E finalmente è arrivata l’ora di entrare nella sezione principale del parco. Pensavamo che dopo Mesa Verde niente avrebbe potuto più sorprenderci, invece questo parco non ha nulla da invidiarle, anzi! Sicuramente non è così vasto e i cliff dwellings non sono così ben conservati, ma ci sono due stupendi trail che si possono percorrere in autonomia, senza necessità di prenotare tour guidati: il Main Loop Trail di 2 km e l’Alcove House Trail di 1,6 km. E attenzione! Se a Mesa Verde vi hanno terrorizzato con la scala a pioli di 10 metri della Balcony House, quello non era niente: le scale più lunghe in realtà sono qui! Per raggiungere l’Alcove House dovrete arrampicarvi su tre lunghe scale a pioli in successione su una parete verticale di 42 metri! Perciò lasciate ogni speranza o voi che soffrite di vertigini…

In effetti mi gira un po’ la testa… credo che non vorrò più vedere una scala a pioli per un po’! Che ne dite di cambiare registro e andare a vedere qualcosa di diverso? Pronti! Lasciamo il parco e ci dirigiamo verso Valles Caldera National Preserve. Incredibile che questa valle verdissima sia di origine vulcanica, ma la forma a conca circolare attorniata da nere colline non lascia dubbi. Proseguendo il tragitto entriamo nel territorio di un altro villaggio pueblo, Jemez Pueblo. A proposito: attenzione agli autovelox! I nativi hanno la straordinaria capacità di escogitare qualsiasi stratagemma per spennare i turisti… Il rischio di una multa è però ricompensato dalle bellezze del paesaggio, e infatti se volete qui in zona si trovano ad esempio le Jemez Springs, delle rinomate sorgenti termali che noi però non visitiamo, limitandoci a qualche veloce foto alle cascate.

Il détour panoramico lungo la NM-4 ci fa arrivare piuttosto tardi ad Albuquerque, dove alloggeremo stasera. La Historic Old Town è praticamente deserta e i locali sono già quasi tutti chiusi nonostante sia sabato sera; solo per miracolo riusciamo ad entrare in una pizzeria che chiude alle 21,00 e per tutta la cena ci sentiamo il fiato sul collo delle cameriere piuttosto sbrigative e maldestre che non vedono l’ora di cacciarci fuori. Okay, togliamo il disturbo, che domani ci aspetta un’altra bella vagonata di chilometri…

18 agosto: Very Large Array – El Malpaìs – Acoma Pueblo – Grants

Sì, lo so, siamo fuori di testa. Solo dei pazzi possono incaponirsi a voler fare una deviazione di 400 km per andare a vedere delle antenne. Avete capito bene: andiamo al VLA, il Very Large Array, nei pressi di Socorro, quindi di nuovo in mezzo al deserto a ben 200 km da Albuquerque. Massì, perché come si fa a passare di qua e non andare a visitare il set cinematografico dei film Contact e Independence Day? Avete presenti quelle antenne paraboliche giganti che si vedono nei film? Ecco, quelle. Sono proprio qui “vicino”! Scherzi a parte, in realtà si tratta di una cosa serissima. Il Very Large Array è una struttura gestita dal NRAO (National Radio Astronomy Observatory) che consiste in un complesso di 27 radiotelescopi giganti del diametro di 25 metri e del peso di ben 235 tonnellate, utilizzati per captare segnali dallo spazio e per l’eventuale ricerca di vita intelligente nell’ambito del programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Life). In pratica è quello che faceva Jodie Foster nel film Contact. Ebbene, questo sito è anche visitabile dai turisti.

Oddio, a dire il vero tutti questi turisti che si avventurano in mezzo al deserto per vedere una simile “attrazione” noi non li abbiamo trovati… Anzi, quando arriviamo non solo siamo gli unici ma non c’è proprio anima viva al Visitor Center: sarà mica perché sono le 9,00 di domenica mattina? Be’, insomma, che si fa? Non è che abbiamo tutto il giorno. E così entriamo alla chetichella senza nemmeno pagare l’ingresso e cominciamo a farci il giro. Al biglietto eventualmente ci penseremo dopo, sempre se si fa vivo qualcuno. C’è un percorso didattico con cartelli illustrativi che conduce fin sotto ad un radiotelescopio: sono proprio impressionanti! Dalla torre di controllo gli operatori fanno ruotare le enormi parabole per modificarne la direzione di ricezione dei segnali, anche se mi sa che quando si avvicinano dei turisti lo fanno apposta per fare “spettacolo”. Ma queste enormi antenne possono anche cambiare posizione, cioè muoversi per formare una diversa “configurazione”. Per questo sono collocate lungo delle rotaie disposte su tre bracci, ognuno di 21 km, a formare una gigantesca “Y”, sui quali scorre una locomotiva che posizionandosi alla base delle antenne le solleva e le sposta in una nuova posizione.

Terminato il walking tour scopriamo che finalmente è aperto il Visitor Center e da bravi turisti andiamo ad acquistare il biglietto, a posteriori. Ci guardiamo anche il video prima di dirigerci verso l’ultima tappa del tour: l’Assembly Building, un enorme hangar dove originariamente sono state assemblate le antenne e che ora viene utilizzato per la manutenzione. Ah, dimenticavo: finché vi trovate in zona è d’obbligo spegnere cellulari e dispositivi elettronici per non disturbare la ricezione dei segnali. Non a caso la struttura si trova in mezzo al deserto, proprio per ridurre al minimo i radiodisturbi. Ma siccome qui di segnali alieni non c’è traccia mi sa che ci conviene andare, ci aspettano più di 200 km per raggiungere la nostra prossima meta. Dalla NM-60 diamo un ultimo saluto all’installazione, che è ben visibile anche da un’apposita area di sosta creata per chi non ha tempo per una visita approfondita.

Imboccata la NM-117 dopo un po’ il paesaggio cambia radicalmente e il deserto lascia il passo a maestose pareti di roccia: siamo a El Malpaìs National Monument & Conservation Area. Il parco è molto esteso e si sviluppa sulla NM-117 venendo da Socorro e sulla NM-53 andando verso Gallup. L’origine vulcanica è subito evidente dalle distese di colate laviche alla nostra sinistra, le Lava Falls, mentre sulla destra si innalzano imponenti pareti di roccia lavica a pinnacoli frastagliati note come The Narrows. Ma l’attrazione più sensazionale è La Ventana Natural Arch, uno stupendo arco di roccia che ci fa tornare con la memoria ai nostri precedenti viaggi nei parchi dello Utah.

Ma le emozioni non finiscono qui. Percorso un breve tratto di I-40 la lasciamo per inoltrarci in un paesaggio spettacolare: siamo nel territorio della Enchanted Mesa e quello che vediamo profilarsi su un’altura all’orizzonte è forse il villaggio pueblo più famoso del New Mexico. Acoma Pueblo, altrimenti detta “Sky City” proprio per la sua posizione sopraelevata, è il più antico villaggio ininterrottamente abitato degli Stati Uniti dal suo insediamento nel XII secolo, anche se ora ci vivono solo una cinquantina di persone per alcuni periodi dell’anno. Ma la sua straordinarietà è data anche dal fatto di essere immerso in un paesaggio letteralmente mozzafiato, con quelle imponenti rocce monumentali (sacre ai nativi) che gli fanno da contorno e da anticamera di accesso. Accesso che non è per niente economico, purtroppo: 27.00$ a testa compreso il permesso per le foto… La visita non è libera ma è obbligatorio il tour guidato: attenzione perché c’è un tour ogni ora ma l’ultimo parte alle 15,30!

Un pullmino dallo Sky City Cultural Center ci conduce sulla mesa dov’è situato il villaggio e da lì inizia il tour di circa un’ora. A dire il vero è più il tempo perso per le soste davanti alle bancarelle di artigianato locale che quello richiesto per il tour vero e proprio. Artigianato locale dai prezzi folli, tra l’altro. Terminato il tour per rientrare al Cultural Center ci sono due possibilità: riprendere il pullmino o scendere a piedi attraverso la scala di roccia che originariamente veniva utilizzata dai nativi, prima che venisse costruita la strada asfaltata. Ovviamente scegliamo la scala di roccia! Però, cavoli, quanto è ripida! Attenzione a non scivolare! Dai piedi della scalinata una breve passeggiata fra gli stupendi monoliti ci riconduce al Cultural Center, dove visitiamo velocemente il museo prima di rimetterci in marcia. Sono le 17,00 e ci sarebbe spazio per vedere qualcos’altro: proviamo a dirigerci verso la parte ovest del Malpaìs National Monument sulla NM-53 ma dopo un po’ ci rendiamo conto che la strada è lunga e non avremmo tempo di vedere nulla. Rimandiamo al giorno dopo (forse) e raggiungiamo il nostro motel a Grants.

19 agosto: Gallup – Canyon de Chelly – Chambers

Un occhio al programma mi dice che anche oggi abbiamo 400 km di strada, per la gioia di Tiziano che deve guidare: eh sì, quest’anno l’on the road è bello tosto, ma che ci posso fare se c’è così tanto da vedere? Mi becco le maledizioni dell’autista (il prossimo anno il viaggio lo faccio organizzare a lui…) e depenno dal programma El Malpaìs: per oggi ne abbiamo già abbastanza. Imbocchiamo la I-40 e ci concediamo solo una breve sosta a Gallup, sulla Route 66. Qui è d’obbligo una foto a El Rancho Hotel, locale storico reso celebre dai film di John Wayne. E infatti il suo avatar cartonato ad altezza naturale fa bella mostra di sè all’interno del locale. Vado ad abbracciarlo per una foto ricordo prima di concedermi una passeggiatina nella Historic Downtown di Gallup, ultima tappa entro i confini del New Mexico.

Il nostro viaggio prosegue verso ovest in direzione Arizona, alla scoperta di un altro canyon sensazionale: il Canyon de Chelly National Monument. Siamo in territorio Navajo e già ci aspettiamo il solito salasso dei parchi gestiti dai nativi. Invece no, il parco è monumento nazionale patrocinato dall’NPS e quindi rientra nel nostro pass. Ma la sorpresa più grande è la bellezza straordinaria di questo canyon, che troviamo inspiegabilmente quasi deserto: i turisti che si recano in questa parte degli Stati Uniti in genere si limitano alla visita dei luoghi più famosi, il Grand Canyon e la Monument Valley, e a torto trascurano questa meraviglia della natura. Le rosse pareti di arenaria si innalzano per circa 300 m dal canyon sottostante, scavato da due torrenti che confluiscono nel fiume Chinle Wash… Fiume?? Ma dov’è? Dev’essere la stagione arida perché non c’è traccia di corsi d’acqua, anzi il fondo del canyon è ricoperto di una bella vegetazione color verde smeraldo che fa risaltare ancor più il rosso delle rocce.

Il Canyon de Chelly in realtà consiste di due canyon distinti, il Canyon del Muerto a nord e il Canyon de Chelly vero e proprio a sud, da cui si diramano altri canyon minori ad occupare una superficie di 340 kmq. Entrambi i canyon principali sono visitabili in auto percorrendo due scenic drive, il North Rim Drive e il South Rim Drive, con diversi overlook lungo il percorso. Tenete presente che i due scenic drive sono lunghi circa 60 km roundtrip, quindi vi serviranno un paio d’ore per percorrerli fino in fondo con soste e foto varie. E ovviamente ad ogni overlook troverete le immancabili bancarelle di oggetti di artigianato locale… Altra particolarità di questo canyon è la presenza di diversi cliff dwellings del popolo Anasazi. Fra questi le White House Ruins, lungo il canyon meridionale, sono raggiungibili con un bellissimo trail di 4 km sul fondo del canyon, dove oltre alle rovine degli antichi Anasazi si incontrano alcuni insediamenti Navajo tuttora abitati. Questo è anche l’unico trail fattibile in autonomia, perché per tutti gli altri è necessario aggregarsi ai tour guidati organizzati dai Navajo. E guarda caso l’attrazione principale del canyon rientra fra i trail a pagamento: è Spider Rock, una doppia torre di arenaria alta 240 m che svetta in tutta la sua imponenza nel punto di congiunzione fra il Canyon de Chelly e il Monument Canyon, lungo la ramificazione meridionale del canyon. Ma niente paura perché dall’ultimo overlook del South Rim Drive potrete ammirarla dall’alto in tutta la sua magnificenza.

Il Canyon de Chelly è stato una piacevolissima sorpresa in questo viaggio e lo mettiamo di sicuro ai primi posti della nostra top ten, fra Palo Duro Canyon e il loro fratello maggiore il Grand Canyon che visiteremo fra qualche giorno. Per stasera facciamo tappa a Chambers, in avvicinamento alla nostra prossima meta di domani. Chambers è un buco di due anime sperduto in mezzo al nulla sulla I-40 dove l’unico motel disponibile è quello in cui abbiamo dormito, con colazione decisamente basic nel vicino ristorante, dove il servizio lascia alquanto a desiderare e il personale non brilla certo per la cortesia. Insomma un posto tristissimo che non consiglieremmo al nostro peggior nemico, ma diciamo che nel nostro itinerario la sosta “ci veniva bene lì”. Comunque se per caso capitate da queste parti ricordate il nostro consiglio: passate oltre.

20 agosto: Petrified Forest & Painted Desert – Route 66 – Meteor Crater – Flagstaff – Williams

Oggi andiamo alla scoperta di un altro splendido angolo dell’Arizona: è il Petrified Forest & Painted Desert National Park, ben due parchi in uno solo! Accedervi è molto semplice perché sono proprio a ridosso della I-40, basta una piccola deviazione e ci siamo. E infatti com’era prevedibile troviamo molti turisti, anche italiani, probabilmente grazie alla vicinanza del più celebre Grand Canyon.

Lasciata la I-40 la prima sezione del parco che incontriamo in corrispondenza dell’entrata nord è il Painted Desert, una vasta distesa desertica modellata da rilievi dai colori straordinari: dal grigio al verde al giallo al rosso… Sembra la tavolozza di un pittore, simile alla Artist’s Palette nella Death Valley. Il parco è attraversato dalla Park Road, uno scenic drive di 10 km con diversi overlook sulle dune multicolori, che ad ogni sosta offrono scorci e sfumature cromatiche sempre diversi, per la gioia degli appassionati fotografi. Ad un certo punto la Park Road interseca la Old Route 66, o almeno quel che ne resta: uno sterrato invaso dalla vegetazione ma ancora delimitato dai vecchi pali della luce ormai in disuso. Vi accorgerete che si tratta della Route 66 perché nel punto di intersezione fa bella mostra di sè la carcassa arrugginita di una vecchia Studebaker, costantemente presa d’assalto dai turisti a caccia di foto.

Oltrepassato questo punto si accede alla Petrified Forest vera e propria. Anche qui c’è da percorrere uno scenic drive di 45 km con soste varie, e qui diversamente dal Painted Desert si possono fare anche brevi trail, quindi per la visita dell’intero parco mettete in conto una mezza giornata. La prima attrazione che si trova lungo il percorso è Puerco Pueblo, un sito archeologico di antichi insediamenti nativi. Subito dopo è la volta del Newspaper Rock (l’ennesimo, chi è stato nello Utah ne sa qualcosa), cioè una serie di petroglifi tracciati su alcune rocce dai popoli ancestrali e visibili da dei telescopi posizionati sulla piazzola di sosta. Dopo un po’ il paesaggio cambia e ci si ritrova in un desolato ambiente alieno dai colori freddi e cupi: bruno, grigio, bianco, azzurro… È Blue Mesa, lontana parente delle Badlands, le terre desolate visitate in South Dakota durante il nostro secondo indimenticabile tour americano.

Ed eccoci finalmente alla foresta pietrificata: distese di tronchi d’albero preistorici fossilizzati e cristallizzati fino a diventare dura roccia. Meravigliosi e incredibili, se si pensa che questi alberi risalgono al Triassico e che si sono conservati per centinaia di milioni di anni nonostante i fenomeni tettonici e gli agenti atmosferici. E se vogliamo preservarli ancora per migliaia di anni dobbiamo averne cura e rispettarli. Quindi vietato salirvi sopra o ancor peggio portarsi a casa qualche frammento come souvenir, come ha tentato di fare un gruppetto di turisti che abbiamo sentito vociferare (italiani, ti pareva…). Attenzione perché i ranger non scherzano! L’albero fossile più stupefacente è Agate Bridge, un enorme tronco sospeso su un canalone, che hanno dovuto rinforzare con una base in cemento armato per evitare che si spezzasse e precipitasse di sotto. Peccato per l’invasività dell’intervento umano, ma effettivamente non si poteva fare altrimenti. Se volete sgranchirvi le gambe in questa sezione del parco si possono fare dei brevi trail fra i tronchi pietrificati, ad esempio alla Jasper Forest, alla Crystal Forest e alla Agate House. Anche noi ne facciamo qualcuno finché un occhio all’orologio ci dice che la mattina è volata ed è decisamente tardi. Lasciato il parco dall’uscita sud puntiamo quindi verso la vicina Holbrook sulla Historic Route 66. E qui ne approfittiamo per visitare qualche altra roadside attraction:

  • Holbrook – La top attraction è il Wigwam Village Motel, dove le stanze sono dei teepee indiani disposti in cerchio attorno alla reception, ognuno con la propria auto d’epoca parcheggiata davanti.
  • Joseph City – Se vedete un cartellone con un coniglio gigante che esclama “Here it is” siete arrivati al Jack Rabbit Trading Post, dove oltre a una puntatina al negozio di souvenir potete farvi una bella foto in groppa a Jack il coniglio.
  • Winslow – “Well, I’m standin’ on a corner in Winslow, Arizona” cantavano gli Eagles in Take it Easy. Il “corner” reso celebre dalla loro canzone esiste davvero e ne hanno fatto addirittura un’attrazione.
  • È lo Standin’ on the Corner Park situato sull’incrocio principale della cittadina, con l’enorme stemma della “Route 66 Arizona” nel mezzo della strada e la statua in bronzo del cantante degli Eagles appoggiato alla sua chitarra sull’angolo del marciapiede. Manco a dirlo, il sito è preso d’assalto dai turisti a caccia di foto ricordo vicino alla statua o sullo stemma della Route 66. Attenzione solo a non intasare il traffico: siete nel bel mezzo di un incrocio! Sempre a Winslow merita una sosta di riflessione il 9/11 Memorial alle porte della città, il memoriale commemorativo delle vittime dell’11 settembre, con due frammenti delle travi in acciaio delle Torri Gemelle conficcati nel terreno.

La strada che ci conduce alla nostra prossima tappa in mezzo all’arido deserto dell’Arizona non avrebbe niente di singolare, non fosse per il cartello del limite di velocità: “Speed Limit: Motor Vehicles 50 mph, Meteors 26,000 mph”?! Avete già capito, ci stiamo dirigendo al Barringer Crater nei pressi di Flagstaff, meglio conosciuto semplicemente come Meteor Crater. Si tratta del cratere meteoritico meglio conservato al mondo e il più vasto mai scoperto negli USA (largo 1200 m e profondo 170), originatosi 49.000 anni fa dall’impatto di un meteorite del diametro di 45 m che secondo alcune teorie viaggiava appunto alla velocità di circa 26.000 miglia. L’impatto devastante ha sviluppato un’energia di ben 10 megatoni pari a quella di 600 bombe atomiche, provocando lo spostamento di circa 300 milioni di tonnellate di sedimenti nell’area circostante. Il meteorite si è in gran parte vaporizzato durante la discesa e l’impatto, ma al Visitor Center è esposto il frammento più grande ritrovato: l’Holsinger Meteorite del peso di ben 639 kg.

Il sito non è parco nazionale dell’NPS ma è un Natural Landmark detenuto da una società privata fondata da Barringer, il primo studioso del cratere, e tuttora di proprietà dei suoi discendenti. L’ingresso di 18.00$ dà accesso ai punti di osservazione sul cratere dall’alto delle terrazze panoramiche, al museo interattivo e alla visione del film Impact che ricostruisce le sequenze dell’impatto. Si può anche partecipare al tour guidato di 30 minuti sul bordo del cratere, che in realtà non sappiamo se consigliarvi o no: pensavamo si potesse scendere nel cratere o almeno girarci intorno, ma non è possibile per “questioni di sicurezza”. Quindi la visita consiste nello stare mezz’ora fermi sul bordo del cratere sotto la canicola, mentre una guida in uno slang incomprensibile vi racconta le stesse cose che potete apprendere vedendovi comodamente il film. Ah, quanto è frustrante comunicare negli States! Be’, se non altro avremo giustificato il costo elevato del biglietto…

Ormai non resta tempo per molto altro. Riprendiamo l’auto in direzione Flagstaff, altra caratteristica cittadina western sulla Route 66 che ci eravamo ripromessi di visitare, ma ci troviamo un traffico infernale e non c’è tempo sufficiente per una sosta. La rimandiamo quindi ai prossimi giorni e proseguiamo verso Williams, dove trascorreremo due notti. Williams per noi non è una novità, l’avevamo scelta come tappa anche durante il primo tour per via della sua posizione strategica a poca distanza dal Grand Canyon. Non a caso la porta d’accesso della città la identifica come “The Gateway to the Grand Canyon”. Ma la sua notorietà si deve anche al fatto di essere “The Last Town Bypassed by I-40”, cioè l’ultima cittadina sulla Route 66 ad essere stata tagliata fuori dalle rotte del turismo di massa in seguito alla costruzione dell’Interstate. Oddio, proprio “tagliata fuori dal turismo di massa” non direi proprio… Anzi è la quintessenza stessa del turismo di massa, specialmente straniero e (ve lo devo dire?) italiano. Conseguenza? Prezzi astronomici per qualsiasi cosa, dagli hotel ai ristoranti ai negozi. E così ci tocca ripiegare sullo stesso motel old-fashioned stile anni ’50 di 4 anni fa, uno dei più economici sulla Route 66 e decisamente basic, senza nemmeno la colazione e con il wifi solo alla reception. Però una bella passeggiata serale lungo la via principale non ce la lasciamo sfuggire, dopo di che via a riposarci. Anche per quest’anno siamo agli sgoccioli, ma domani ci aspetta il clou della vacanza!

21 agosto: Grand Canyon – Williams

Ognuno dei nostri tour negli States è stato concepito come un loop, con partenza e arrivo nello stesso punto, e casualmente tutti ruotano in senso antiorario. Ma quest’anno la scelta non è stata casuale. Abbiamo infatti costruito l’itinerario in modo da lasciarci il meglio alla fine, in un crescendo di emozioni. E il meglio è indubbiamente, indiscutibilmente, sempre lui: il Grand Canyon National Park. Certo non c’è l’eccitazione della prima volta, sappiamo già cosa aspettarci, ma proprio per questo sappiamo anche come muoverci per ottimizzare la giornata. Quattro anni fa, dopo l’irrinunciabile passeggiata lungo il South Rim Trail, abbiamo preso la navetta (Orange Route) facendo sosta a tutti i viewpoint, dopo di che con l’auto abbiamo percorso il Desert View Drive fino all’uscita est del parco, per poi proseguire verso Page. Stavolta però alloggiamo a Williams, che si trova a solo un’ora di strada, quindi abbiamo più tempo e possiamo “osare” di più: la discesa lungo il canyon per “sentire il profumo” del fiume Colorado.

Partiamo quindi prestissimo e siamo al gate del parco già prima delle 8,00. Stavolta il canyon è immerso nella nebbia e il primo colpo d’occhio dal bordo del rim non regala lo stesso tuffo al cuore del viaggio precedente. Ma basta il tempo di una passeggiata e pian piano il sole spazza via la foschia, rivelandoci nuovamente quel miracolo della natura che è il Grand Canyon. A questo punto non possiamo indugiare oltre. E allora via a prendere lo shuttle che ci porterà all’attacco del trail che abbiamo scelto: il South Kaibab Trail. Lo shuttle (Orange Route) è una scelta obbligata per raggiungere il trailhead sulla Yaki Point Road, dove l’accesso alle auto non è consentito.

Il trail non è proprio una passeggiata: se volete arrivare fino al Bright Angel Campground o al celeberrimo Phantom Ranch sono più di 11 km one-way e 1460 m di dislivello. Il sito nell’NPS sconsiglia assolutamente di percorrere l’intero trail andata e ritorno in giornata. Il limite massimo consigliato per un’escursione giornaliera è Skeleton Point (5 km one-way con un dislivello di 620 m) e se pensate di fare discesa e risalita in un giorno dovrete comunque partire prestissimo ed essere estremamente allenati (e anche un po’ matti!). Sì perché oltre al dislivello c’è da mettere in conto il gran caldo, almeno nella stagione estiva, accentuato dalla mancanza d’aria a mano a mano che si scende nel canyon. Altra cosa da tenere a mente è che il sentiero è totalmente esposto al sole tranne le prime ore del mattino, quindi meglio partire prima possibile. Anche perché se scendere può sembrare una passeggiata, il bello poi è risalire!

Tutto considerato noi decidiamo di arrivare fino a Cedar Ridge (circa 5 km roundtrip). Un buon compromesso. Il sentiero è ripido e a metà mattina già l’ombra lo abbandona, perciò portatevi tanta acqua, soprattutto per il ritorno, perché lungo il percorso non ce n’è. Ma scendere all’interno del canyon è un’esperienza unica, che regala scorci mozzafiato fra le imponenti pareti di roccia multicolori, accompagnati dagli scoiattoli che si avvicinano per nulla intimiditi in cerca di cibo, mentre i condor planano sopra le nostre teste stagliandosi contro un cielo incredibilmente terso. Come tante altre volte, di nuovo pensiamo che qui nel west il cielo sembra sempre più blu, o forse sarà l’immensità degli spazi aperti, o forse tutte e due.

A volte lungo il sentiero si incontrano file di muli che trasportano merci o turisti con le loro guide. Il sito del parco raccomanda di cedere loro sempre il passo e di fare attenzione a non spaventarli: gli incidenti non sono infrequenti e possono mettere a rischio la loro incolumità. Lungo la discesa verso Cedar Ridge è d’obbligo una tappa intermedia per le foto panoramiche all’Ooh Aah Point, un’onomatopea che non ha bisogno di spiegazioni. La maggior parte dei turisti si ferma qui, e infatti proseguendo il sentiero si fa un po’ più solitario e la sensazione è di pace assoluta a mano a mano che si penetra nelle viscere della terra. Aguzzando la vista si riesce a scorgere il ponte sospeso sulle acque fangose del Colorado River: ah, che peccato non poter arrivare fin là! Invece dobbiamo risalire e qui viene il bello! Il sentiero ora è in pieno sole, l’aria è rarefatta e il caldo asfissiante. Non so quante volte mi devo fermare a riprendere fiato! Niente a che vedere con i percorsi alpini cui siamo abituati.

Il trail ci impegna 3 ore buone e quando raggiungiamo il rim è mezzogiorno. Il pomeriggio lo dedichiamo alla visita dei viewpoint lungo la Hermit Road che avevamo tralasciato quattro anni fa per mancanza di tempo. Anche qui si deve prendere lo shuttle (Red Route). Attenzione perché la linea rossa è l’unica che non parte dal Visitor Center: bisognerà prima prendere la Village Route (linea blu) e dalla Village Route Transfer Station prendere la Red Route verso Hermits Rest. Per fermarsi a tutti i viewpoint occorre mettere in conto 2-3 ore. Il tratto più spettacolare va da Hopi Point, uno degli overlook più scenografici dove finalmente si scorge il fiume Colorado, fino a The Abyss, dove uno spettacolare strapiombo di 900 metri si spalanca sotto di noi senza protezione alcuna. Altra tappa imperdibile è Pima Point che offre le vedute più ampie di tutta la Hermit Road: la vista può spaziare nell’immensità per quasi 40 miglia, e pare addirittura che l’eco prodotto dalle pareti del canyon a volte permetta di sentire il rumore delle rapide del fiume sottostante. Il sentiero termina a Hermits Rest, dove un’affascinante costruzione in pietra e legno ospita uno snack bar e un gift shop.

Tornati al Visitor Center sono ormai passate le 17,00 e non c’è spazio per altro. Dopo un’ultima foto di rito davanti all’insegna del parco rientriamo quindi verso Williams, dove ci accoglie alle porte della città lo stemma gigantesco della Route 66 davanti all’insegna monumentale in pietra della città. È proprio qui che facciamo la conoscenza di una coppia di amici del New Jersey in viaggio attraverso gli States al seguito della loro squadra di baseball. Che matti! L’ultima serata a Williams la passiamo prima in una pizzeria dove consumeremo la cena più cara della vacanza: quasi 60.00$ per due pizze e due birre… no comment… Infine passeggiata finale lungo la Route 66 che attraversa la città e puntatina in qualche negozio a caccia degli ultimi souvenir. Eh sì, siamo ormai agli sgoccioli, sigh!

22 agosto: Flagstaff – Sedona – Montezuma Castle – Scottsdale

Lasciata Williams facciamo un ultimo tentativo patetico di visitare Flagstaff: in particolare cerchiamo lo stemma della Route 66 sull’asfalto di cui abbiamo visto le foto in rete ma… non lo troviamo. Nemmeno chiedere ai passanti serve a qualcosa, che lo abbiano rimosso sto benedetto stemma?? Mah, resteremo col dubbio. Dopo aver girato in lungo e in largo la città senza vedere niente di interessante (non sarà perché sono le 8,00 di mattina?), alla fine ci arrendiamo e proseguiamo, che di chilometri da macinare e di roba da vedere ne abbiamo abbastanza anche oggi.

A far da preludio alla nostra prossima meta, ecco le imponenti pareti di roccia color rosso vivo che costeggiano la AZ-89A, lo scenic drive che attraversa l’Oak Creek Canyon e la cui straordinaria bellezza ci induce a più di una sosta. All’estremità meridionale della strada si trova una città dal fascino particolare, anzi addirittura “spirituale”: è Sedona. Che sia per la sua posizione privilegiata in un contesto naturale unico, fra questi vertiginosi canyon di roccia rossa e la vegetazione lussureggiante? Sta di fatto che questa parte dell’Arizona sembra emanare una potente carica di energia vibrazionale e spiritualità: sono i cosiddetti “Vortex”, vortici energetici sprigionati dalla terra che hanno fatto di Sedona la capitale della cultura New Age, attirando artisti come il pittore surrealista Max Ernst, santoni e cultori della spiritualità della natura.

Ma cosa sono in pratica questi Vortex? Semplicemente dei posti naturalistici stupendi dove è possibile fare delle belle escursioni. Protagonisti assoluti di questi luoghi sono i caratteristici monoliti di roccia rossa, le pareti monumentali e altre surreali formazioni rocciose di cui è circondata la città. Non vi garantisco che sentirete le vibrazioni, ma sarete certamente appagati da tanta bellezza. Attenzione: per visitare i vari Vortex è necessario munirsi del Red Rock Pass ed esporlo in auto quando la lasciate nei vari parcheggi, ma vi farà piacere sapere che è accettato anche il pass dell’NPS “America the Beautiful”. Ecco i Vortex che abbiamo visitato:

  • Cathedral Rock – Come si capisce già dal nome, questa imponente formazione di roccia rossa ricorda una grande cattedrale gotica. Dal parcheggio inizia un trail che sale sulla “cattedrale”: non è lungo ma l’ultimo tratto è una lastra scoscesa piuttosto scivolosa. Chi è così bravo da raggiungere la sommità potrà godersi il panorama seduto sulle rocce a caccia degli influssi del Vortex: si dice che questo aiuti a migliorare il proprio lato umano e compassionevole (la cosiddetta energia femminile). Mah, noi eravamo solo stremati dalla fatica e mezzi morti dal caldo…
  • Airport Mesa – Si tratta di un overlook in posizione sopraelevata vicino all’aeroporto della città, raggiungibile in auto e poi con un breve percorso a piedi. Da qui si gode di una vista a 360 gradi sulle rocce rosse circostanti che il tramonto esalta ancor di più. Il Vortex della zona avrebbe la capacità di donare forza interiore e sicurezza (energia maschile).
  • Bell Rock – È una formazione rocciosa mastodontica che ricorda un’enorme campana. Si raggiunge con un breve trail che ad un certo punto si biforca: un sentiero simile a quello della Cathedral Rock sale faticosamente in cima, mentre un altro percorso di media lunghezza le gira intorno. Noi scegliamo quest’ultimo, ormai stanchi delle scarpinate. Qui troviamo il Vortex della sintesi degli opposti, che dovrebbe infondere un equilibrio spirituale tra determinazione (energia maschile) e bontà d’animo (energia femminile). Non ci credete? A dire il vero neanche noi…
  • Chapel of The Holy Cross – Oltre ai Vortex, a sud di downtown c’è un’altra particolarissima attrazione: una chiesa cattolica in stile contemporaneo incastonata nella roccia fin quasi a mimetizzarsi. Al suo interno domina un imponente crocifisso in stile minimalista posto davanti ad un’enorme vetrata con il panorama delle rocce rosse alle spalle.

A torto Sedona non viene quasi mai inclusa come tappa nei tour classici dell’ovest americano. Per noi è stata invece una piacevole scoperta che consigliamo senz’altro, anzi meriterebbe una sosta di 2-3 giorni, tante sono le attrazioni e i trail che si possono fare. Noi ci siamo dovuti limitare all’essenziale per mancanza di tempo.

Prossima e ultima tappa della giornata è Montezuma Castle National Monument. Ci avviciniamo sempre più alla torrida Phoenix e si inizia a percepire il clima secco e arido del deserto. Ma questo non è ancora niente! Montezuma Castle è un sito archeologico dove si trovano alcuni degli ormai ben noti cliff dwellings dei popoli ancestrali. Non è neanche lontanamente paragonabile a Mesa Verde o a Bandelier, ma dato che passavamo di qua… Visto il caldo notevole completiamo velocemente il breve trail ai dwellings e ci rimettiamo in marcia. Dedichiamo solo una rapida sosta a Fort Verde State Historic Park prima di proseguire per Phoenix… e restare imbottigliati nel traffico sulla Interstate mentre fuori ci sono 45°C alle 4,00 di pomeriggio!! Quando finalmente arriviamo all’agognato motel in zona Scottsdale abbiamo solo la forza di portare in stanza le valigie e stramazzare sul letto. Cavoli, fuori è un inferno! Nemmeno la piscina del motel ci induce in tentazione, preferiamo rimanere in stanza con l’aria condizionata a palla, almeno per quanto ci è concesso, visto che la prima raccomandazione della reception è di tenerla al minimo per questioni di consumo. Siam messi bene! Anche uscire a cena è un supplizio. Chissà se riusciremo a dormire…

23 agosto: Phoenix – Venezia

Sveglia alle 6,00 per approfittare delle ore più “fresche”. Usciamo dalla stanza e… Uff! Ma non è possibile che sia già così caldo a quest’ora! Non per nulla siamo nella “Valley of the Sun”, com’è altrimenti detta questa cattedrale nel deserto che è Phoenix, un’area metropolitana vastissima (ancor più estesa di Los Angeles) quanto decisamente poco attraente, con il suo clima arido e inospitale, le temperature estive costantemente sopra i 40°C, la scarsità di attrazioni turistiche. E noi che abbiamo il volo di rientro in serata… Come trascorreremo la giornata? Ma soprattutto: ne usciremo vivi?

Tanto per cominciare dedichiamo le primissime ore del mattino alla visita di Scottsdale, una graziosa cittadina che fa parte dell’area urbana di Phoenix. Non a caso abbiamo scelto di dormire qui. La parte più interessante ovviamente è la pittoresca Old Town in stile western, con i suoi edifici del primo novecento, i negozi di souvenir, i saloon, l’Art District con le sue gallerie d’arte, il Waterfront lungo il Salt River con i suoi edifici residenziali, giardini, fontane e sculture. Veramente carina. L’unico problema è che si boccheggia… Alle 8,30 del mattino già non ne possiamo più dal gran caldo. Stramazziamo su una panchina mentre ci passano davanti visioni della nostra stanza d’albergo climatizzata e del distributore dei succhi di frutta al tavolo della colazione che di sicuro sarà ancora aperta. Non ci pensiamo due volte e ci fondiamo in motel. Non ne usciremo prima delle 10,30 e solo perché altrimenti di lì a poco ci avrebbero cacciati, ha ha!

Lasciato il motel a questo punto non abbiamo scampo: ci tocca girare per la città fino alla partenza del volo in serata. Dove si va? Sappiamo che Phoenix downtown non ha edifici di particolare rilevanza storica o architettonica, ma è pur sempre la capitale dell’Arizona, avrà pure un Campidoglio, no? Finalmente lo troviamo a ovest di downtown, nella zona degli edifici governativi e ministeriali e a pochi passi da Memorial Plaza, una vasta area monumentale con ampi giardini, scenografiche fontane e numerose sculture che ricordano i vari conflitti nel mondo in cui hanno sacrificato la vita i soldati americani. Il Capitol Building di Phoenix non ha l’imponenza e la magnificenza dei Campidogli delle grandi città americane e all’inizio quasi non lo notiamo. Invece proprio qui ci accade una cosa buffa.

Stiamo girovagando intorno all’edificio quando ne vediamo uscire un uomo distinto in giacca e cravatta (con questo caldo!) e con il cappello da cowboy, stile ricco proprietario terriero del profondo sud, non so se ho reso l’idea. E siccome Phoenix non è proprio una meta turistica delle più famose, lì intorno ci siamo solo noi e questo ad un certo punto si avvicina. È accompagnato da un uomo e una donna che dall’attrezzatura fotografica sembra una giornalista. Cosa vorranno mai da noi?? Ci chiedono un’intervista!! Ha ha! Ma per chi ci hanno preso? Scopriamo allora che questo è un politico, forse un candidato alle prossime elezioni, chi lo sa? Evidentemente è a caccia di consensi e ci ha preso per dei potenziali elettori. Quando gli diciamo che siamo dei turisti italiani e non sappiamo niente della politica dell’Arizona, questo sgrana gli occhi e ci chiede come ci è venuto in mente di andare proprio a Phoenix. Be’, in effetti come dargli torto… Poi comincia a parlare delle bellezze dell’Italia e infine insiste per farsi fotografare mentre Tiziano gli stringe la mano. Questa sì che è bella! Magari saremo anche finiti sui giornali, chi lo sa…

E dopo questa parentesi “mondana” torniamo con i piedi per terra e riprendiamo a fare i turisti. Nostra prossima e ultima tappa è Papago Park, nella zona orientale della città, una riserva naturale che ospita il Desert Botanical Garden e lo Zoo di Phoenix. Ci sono anche campi da golf, aree picnic, laghetti e la formazione rocciosa Hole-in-the-Rock, una piccola collina di arenaria che è stata erosa nel corso del tempo ed ora ha diverse aperture sulla parete frontale. Un facile sentiero permette di salire sulla collinetta e di raggiungere la finestra più grande, da cui si può godere di una vista panoramica del parco e della città in lontananza. Insomma, una piccola oasi nel deserto nel cuore della città. Ma non illudetevi: nemmeno qui troverete refrigerio. A Phoenix il caldo non dà tregua… Ormai siamo cotti a puntino e non c’è proprio altro per cui valga la pena di soffrire ancora. Non ci resta che avviarci verso l’aeroporto. Bye bye, rovente Phoenix.

Ecco, lo sapevo, sono arrivata a pagina 27… Anche stavolta i miei buoni propositi sono andati a farsi benedire. Ma come si fa ad essere sintetici quando si parla dei paesaggi sconfinati, variegati, unici degli Stati Uniti? Per quei pochi che sono riusciti ad andare almeno oltre pagina 3 non mi resta che concludere con un grazie, e magari anche con un arrivederci al prossimo viaggio, spero! Mentre a tutti coloro che si sono addormentati non posso che augurare di fare un bel sogno: il sogno americano! E allora che aspettate a realizzarlo? Correte a prenotare il prossimo viaggio nei favolosi States! Non ve ne pentirete!

Isabella & Tiziano

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