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Channel: Diari di viaggio – Il Giramondo
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Viaggio ai confini del mondo – 2: Falkland, South Georgia, Orcadi e Shetland

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Diario di viaggio nell’Oceano Antartico tra le isole e gli arcipelaghi più a sud del mondo, dove le forze della natura regnano incontrastate. Qui, tra scenari grandiosi e incontaminati, vive una fauna sorprendentemente abbondante, costituita da grandi uccelli oceanici, varie specie di pinguini,  foche e elefanti marini, delfini e balene. Anche la storia qui ha fatto la sua parte: per decenni queste isole rifornirono di olio animale il mondo intero, portando quasi all’estinzione i grandi cetacei pelagici e  i pinnipedi da cui si poteva ricavare grasso grezzo da purificare.

Prima parte di questo viaggio (dalla Patagonia all’Antartide) qui.

23 dicembre: da Ushuaia alle Falkland

Dopo la partenza dalla Terra del Fuoco, ci vogliono 2 giorni di navigazione per raggiungere l’arcipelago delle Falkland.

Good morning everyone, good morning! Questo caloroso saluto ci accoglierà tutte le mattine fino alla fine del viaggio, tanto che anche adesso che sono a casa quasi quasi ne sento la mancanza. Alle 9 il capo spedizione Lynn Woodthworth ci riunisce nella sala per il briefing obbligatorio richiesto dalla IAATO, l’associazione internazionale degli operatori turistici dell’Antartide fondata nel 1991 per difendere e promuovere la pratica di viaggi sicuri e rispettosi dell’ambiente da parte delle strutture private autorizzate ad operare nel continente antartico. Ci spiegano le regole di comportamento a cui dovremo attenerci durante le uscite con gli zodiac e gli sbarchi nelle prossime settimane. In sostanza, le “cose ​​da fare e da non fare”. Segue altro briefing obbligatorio per spiegare come si sale e come si scende dagli zodiac, poi la distribuzione degli stivali e dei salvagenti.La prova stivale fa capire subito che con questi attrezzi ci saranno dei problemi. Non è tanto per l’indosso, che è facilissimo, quanto per toglierli, operazione che richiede sforzi, pazienza e esercizi di contorsionismo. Anche i salvagenti da zodiac, che sono i giubbotti di salvataggio a ferro di cavallo autogonfiabili standard ISO 12402, richiedono un po’ di studio accurato per capire da che parte bisogna metterseli addosso. Ci vorranno 3 o 4 giorni prima di riuscire a svolgere questa operazione con una certa disinvoltura. In cabina ci sono anche i salvagenti più grandi, quelli a collare provvisti di luce e fischietto da usare in caso di abbandono della nave, che ovviamente speriamo rimangano sempre nell’armadietto.

La traversata verso le Falkland è abbastanza movimentata, a causa di un vento in coda a 35-40 nodi che smuove le onde. Principi di mal di mare colgono una parte dei viaggiatori. Per chi resiste, c’è uno spettacolo meraviglioso sul ponte: mentre il sole tramonta le ombre scure degli albatros e delle procellarie (southern giant petrels), che seguono la nave fluttuando nel vento, si stagliano sullo sfondo illuminato dalla palla arancione che scende a poco a poco sull’oceano, offrendo splendide opportunità fotografiche. Non fa freddo: se non fosse per le ondate ogni tanto davvero violente, non si verrebbe mai via, aggrappati ai corrimano sulla tolda.

In lontananza alcune sei whales (balenottere boreali) emergono ogni tanto tra alti sbuffi d’acqua.

24-25 dicembre: le Falkland

O Malvinas, secondo i punti di vista.

Al risveglio c’è vento forte, ma c’è il sole, e molti di noi si dirigono sul ponte per ammirare i panorami delle Isole Falkland in avvicinamento. Abbiamo navigato attraverso uno stretto spazio tra West Point Island e West Falkland chiamato The Woolly Gut, fino ad arrivare a Carcass Island che è il primo punto di sbarco di questo viaggio.

Carcass Island

Posta nella parte più occidentale dell’arcipelago, questa isola è il regno dei pinguini di Magallanes, quelli che si possono vedere negli acquari, come a Genova. La bellissima spiaggia di sabbia bianca Leopard beach è piena di questi simpatici animali che camminano dondolando sulla sabbia, fino a quando qualcuno si getta in acqua per la quotidiana ricerca del krill. Osserviamo i movimenti scoordinati e ballonzolanti dei piccoli uccelli senza ali, quasi comici nei loro spostamenti a terra. Poi quando si gettano in acqua diventano dei missili, a conferma che la loro struttura è assolutamente idrodinamica, e non aerodinamica come quella degli altri uccelli. Più verso l’interno, dove la spiaggia finisce e comincia il manto erboso, altri pinguini stanno scavando nel terreno per costruirsi le tane di incubazione per le uova.

Oltre ai pinguini, facciamo conoscenza ravvicinata con vari tipi di uccelli: gli skua che rubano le uova dai nidi altrui, i grandi e eleganti albatros, le anatre selvatiche cauquenes, le beccacce di mare oystercatcher e le bianche sterne antartiche, piccole ma sorprendentemente aggressive.

Facciamo una bellissima passeggiata di un paio di kilometri nell’erba alta che si chiama tussock, ammirando il panorama fantastico dell’isola, per raggiungere la fattoria dei signori Mc Gill, cileni a dispetto del nome, l’unica famiglia che vive su questa isola. All’ingresso del recinto c’è un comitato di benvenuto formato da alcuni caracara striati (falchi boreali) ammaestrati da Rob McGill, che fanno la guardia all’insediamento. I cani infatti su queste isole non sono ammessi, come testimonia la cuccia vuota per “Tasha the dream”, cagnolina virtuale che non la potrà mai occupare. La signora Lorraine ha preparato una fantastica offerta di dolci: ben 18 diversi tipi, accompagnati con tè e caffè. Ci volevano proprio, dopo la lunga camminata nel vento. C’è il sole, non fa affatto freddo, al punto che a poco a poco scompaiono giacche a vento e maglioni e si rimane tutti in maglietta o maniche di camicia. Bellissimi i panorami costieri delle Falkland col mare appena increspato dal vento, che assume tutte le tonalità dal verde all’azzurro.

Saunders Island

Altra isola occidentale. Lungo “the neck”,  l’istmo che unisce la parte principale dell’isola con un promontorio che si protende verso ovest, vediamo davvero di tutto.

Nell’ordine, si raggiunge prima la colonia dei pinguini gentoo dal becco rosso, poi un gruppetto di una trentina di king penguins, poi i simpaticissimi rockhopper (pinguini saltaroccia). E’ la specie più piccola (solo 35-40 cm), ma sono bellissimi. Hanno un ciuffetto di piume gialle a lato degli occhietti cerchiati di rosso. Vederli saltellare di roccia in roccia in fila indiana a piccoli balzi è uno spasso: sono immediatamente eletti come la specie più simpatica, anche se sappiamo che altre ne vedremo nel corso del viaggio. Tanto buffi e impacciati sono mentre saltellano tra le rocce, scivolando e rotolando giù ogni tanto, tanto disinvolti appaiono quando si gettano nelle pozze tra gli scogli fino a raggiungere l’oceano. Qui diventano dei veri e propri siluri quando si immergono alla ricerca del krill, i gamberetti oceanici di cui si alimentano.

Spostandoci dalla spiaggia verso la collina raggiungiamo la zona di nidificazione dei magnifici “black browed albatros” gli albatros dalle sopracciglia nere, che è la specie più diffusa in tutta l’area antartica e subantartica. Magnifici uccelli che quando si alzano in volo dispiegano un’estensione alare di quasi tre metri. Signori del vento, in volo sono un concentrato di eleganza e di potenza, soprattutto quando volteggiano sopra le onde sfiorandole appena e lasciandosi trasportare dal vento senza mai toccarle. Grazie al vento, e a una particolare abilità nello sfruttare le correnti ascensionali, riescono a percorrere centinaia e centinaia di kilometri sull’oceano alla ricerca del cibo, per poi ritornare al nido dove le femmine accudiscono i piccoli e attendono il nutrimento. Pensare che non sono nemmeno i più grandi: gli albatros wandering, cioè “erranti”, hanno un’apertura alare che può superare i 3.50 metri. Li abbiamo visti spesso seguire la nave durante le traversate.

Tornando verso la nave, assisto alla scenetta di un gruppo di pinguini di Magallanes che passeggia in fila indiana sul bagnasciuga, guardando con circospezione il nostro gruppo che scatta foto dalla spiaggia: mi chiedo chi è l’osservatore, e chi è l’osservato….

Tra la scarsa vegetazione c’è anche una coppia dei terribili skua (stercorari), che stranamente non si cura dei gentoo a cui dovrebbero andare a rubare le uova. C’è una ragione: da dietro le alghe secche fa capolino la testolina marroncina di un pulcino di skua che cerca rifugio all’ombra dei genitori. Anche questi rapaci dal becco uncinato, che hanno un comportamento spiccatamente parassitario e predatorio, quando hanno prole difendono con grande accanimento il proprio nido, attaccando chiunque si avvicini, uomo compreso. Meglio stare alla larga.

Al ritorno alla nave un gruppo di amichevoli delfini di Commerson, neri col corpo centrale bianco, accompagna gli zodiac. Ogni tanto qualche delfino si diverte a passare e ripassare più volte sotto i gommoni per poi riapparire davanti spiccando un bel balzo fuori dall’acqua.

Stanley  

Nella capitale delle Falkland vivono circa 2500 dei 3000 abitanti di tutto l’arcipelago, che pure è grande più o meno come l’Abruzzo e il Molise messi assieme. Il borgo è un variopinto insieme di villette con i tetti dai colori pastello, che si estendono su una collinetta affacciata sulla baia. Sul lungomare ci sono tanti ricordi dell’assurda guerra anglo-argentina che nel 1982 fece 900 morti, di cui 300 nel solo affondamento dell’incrociatore argentino Belgrano. Il monumento ai caduti riporta i nomi di tutti i soldati e i civili inglesi morti durante il conflitto. L’analogo argentino si trova invece a Buenos Aires.

In Thatcher Road troneggia il busto in bronzo della lady di ferro, che lo scultore ha pensato bene di ringiovanire di una trentina d’anni e ritrarre con un fisico da modella. Tutto attorno, casette di legno con lupini colorati e grandi papaveri rossi e gialli nei giardini.

E’ Natale, eppure non c’è in giro praticamente nessuno. Fuori dalla bianca chiesetta St Mary’s Church, cattolica, c’è un avviso che alle 10 c’è la messa natalizia, a cui non posso mancare. Pochissimi fedeli dentro, una ventina in tutto. Dalle facce sembrano immigrati indios o forse filippini che fanno i mestieri nelle famiglie dei “kelpers”, nome con cui si definiscono gli abitanti delle Falkland e che richiama il kelp, l’alga degli oceani freddi. I kelpers invece vanno a messa nella cattedrale anglicana che si erge al centro del lungomare, facilmente riconoscibile per i mattoni rossi e per il monumento di bianche stecche di balena posto all’esterno.

L’ufficio postate è aperto: è un’occasione per comprare qualche foglietto di francobolli dei territori antartici da regalare ai miei amici collezionisti, e per una foto ricordo dentro le cabine del telefono rosse, quelle che ormai sono archeologia di arredo urbano ma che qui e in qualche paesino della campagna inglese ci sono ancora.

26-27 dicembre: la convergenza antartica

Nel primo pomeriggio la Plancius leva le ancore dallo Stanley Harbour e si parte verso la Georgia del Sud.

My dear and favourite friends, bon appetit! Altro annuncio che sta diventando familiare, questa volta da parte dell’hotel manager Zsuzsanna Varga, ungherese. La cena di Natale in realtà è abbastanza movimentata a causa del mare mosso e qualcuno si ritira prima di finirla.

Per raggiungere la South Georgia ci vogliono 2 giorni e mezzo di navigazione. Mentre un arcobaleno perpendicolare all’orizzonte, fenomeno che non avevo mai visto, sale dalle acque verso il cielo, attraversiamo la convergenza antartica. E’ la linea immaginaria dove le acque fredde dell’Antartide incontrano quelle più calde dell’oceano, portando verso nord plancton e krill. A occhio nudo non si percepiscono differenze. Gli strumenti invece rilevano il calo di temperatura del mare (3-4 gradi in meno) e l’attività degli uccelli in superficie si fa più frenetica.

28-31 dicembre: South Georgia

Quattro giorni dedicati alla Georgia del Sud, grande isola lunga 165 km e larga 35 che si estende in direzione sud-est in mezzo all’Oceano Pacifico australe all’altezza del 53mo parallelo.

L’accesso a questa isola è soggetto a molte misure di tutela per la salvaguardia dell’ecosistema. Dobbiamo fare il “Biosecurity Vacuuming”, cioè l’aspirazione degli indumenti e dell’equipaggiamento che si intendono portare sull’isola, con l’obiettivo di prevenire l’introduzione anche involontaria di larve, batteri e ogni genere di specie potenzialmente invasiva.   L’avvistamento di un gruppo di megattere disturba un po’ l’operazione, perché ovviamente tutti diamo la precedenza alle foto delle balene rispetto alla pulizia dei capispalla e degli zainetti, ma alla fine l’abbiamo fatta tutti. Al termine è necessario firmare un foglio di autodichiarazione di avvenuta pulizia delle attrezzature personali. Come premio l’organizzazione di Oceanwide ci regala un bel libro che introduce la Georgia del Sud.

Salisbury Plain

La South Georgia, terra dal clima inospitale sferzata dai venti catabatici che raggiungono i 250 km/h, per contrasto è uno dei luoghi al mondo dove la fauna selvatica è più abbondante, un vero paradiso per pinguini, uccelli e pinnipedi. Ce ne accorgiamo subito al primo sbarco sula spiaggia di Salisbury Plain, nel nord-est dell’isola. La spiaggia brulica di pinguini reali (king penguins), quelli con una vistosa macchia giallo-arancio sul collo. Secondo le stime delle guide qui ci sono più di 150.000 coppie, di cui molte con i piccoli che si distinguono facilmente perché sono ancora avvolti dalle piume marrone con cui vengono alla luce. Entro marzo, alla fine dell’estate australe, la muta terminerà e avranno anche loro il caratteristico piumaggio bianco-nero-giallo degli adulti.

La colonia ha occupato tutta la piana, fino alle pendici coperte di ghiaione delle alte montagne che delimitano la striscia di terra, ammantate di neve e con la vetta circondata dalle nuvole. Il paesaggio aspro della South Georgia ci affascina sin dal primo impatto e scattiamo migliaia di foto. Lo spazio sulle schede di memoria della macchina fotografica comincia già a scarseggiare, per cui bisogna preparare le schede di scorta che presto saranno necessarie.

Fortuna Bay

Nel maggio del 1916 cominciò qui la parte finale della traversata di Sir Ernest Shackleton e dei suoi compagni Frank Worsley e Tom Crean attraverso la South Georgia, gli ultimi 5 km verso la base di Stromness e la salvezza. Qualcuno del nostro gruppo sarebbe interessato a ripercorrere questo cammino, che però purtroppo non è in programma.

In questa spiaggia il comitato di accoglienza è costituito da un folto gruppo di foche dalla pelliccia (fur seals in inglese, in italiano otarie orsine), che se ne stanno a oziare sdraiate. Quelli che hanno più daffare sono i maschi, impegnati a difendere l’harem e il territorio dagli attacchi dei rivali. Più in là c’è un’altra numerosa colonia di king penguins. Per raggiungere la colonia bisogna attraversare lo sbarramento dei maschi di fur seal, cosa che provoca apprensione perché ogni tanto qualche maschio ci si rivolge contro sbuffando e aprendo la bocca con fare minaccioso. Qualche altro fa anche qualche metro avanzando a balzi nella direzione di alcuni di noi. Obiettivamente, anche se siamo perfettamente in grado di muoverci più velocemente di una foca che pinneggia sull’asciutto, vedersi arrivare contro un bestione di un paio di quintali con le fauci spalancate non è affatto piacevole. Durante uno dei briefing ci avevano mostrato un filmato con immagini delle terribili conseguenze che può provocare il morso di una foca: dita e mani scarnificate di visitatori incauti. Per cui meglio muoversi lentamente e stare alla larga.

Superato lo sbarramento dei maschi di foca si raggiunge un’altra colonia di migliaia di king penguins, che stazionano nelle fredde acque di un torrente che scende dal Kõnig Glacier, la cornice di montagne che delimitano la baia. Anche queste coppie hanno molti piccoli in diverse fasi della muta: alcuni hanno pochi giorni e sono completamente marrone, altri mostrano già qualche chiazza di bianco e di nero, altri sono più avanti e presentano già il piumaggio giallo-arancione sul collo. I piccoli sono curiosi e si avvicinano dondolando, ma dobbiamo rimanere sempre a distanza di sicurezza. Non bisogna toccarli perché il grasso dei nostri polpastrelli lascerebbe un odore indelebile sul piumaggio e l’individuo verrebbe allontanato dalla colonia.

Futuro incerto per due pinguini al centro della colonia. Sono stati aggrediti dalle procellarie di mare, o forse dalle orche. Si sono salvati per miracolo ma stanno perdendo molto sangue. Non dovranno più allontanarsi dalla colonia, altrimenti i predatori li assaliranno un’altra volta, e non ci sarà più niente da fare. Le procellarie giganti dal terribile becco adunco sono lì, volteggiano minacciose sopra di loro pronte ad attaccare. Gli skua invece vanno alla ricerca di un uovo o una placenta non custoditi. Male che vada si accontenteranno di spolpare la carcasse dei pinguini feriti, quando le procellarie si saranno saziate.

 

Cobbler’s Cove e i pinguini macaroni  

Durante la notte la Plancius si è spostata verso est raggiungendo la baia di Godthul e la magnifica insenatura di Cobbler’s Cove. Questo terzo approdo sull’isola ha come obiettivo la ricerca dei pinguini macaroni. I macaroni sono la specie più diffusa nelle aree antartiche e subantartiche, ma raggiungere le loro colonie è difficile perché nidificano in zone molto esposte al vento. Qui in South Georgia questa specie di pinguini occupa praticamente tutta la costa sud, che purtroppo è del tutto priva di approdi, quindi per vedere da vicino una colonia bisogna arrivarci a piedi.

Per raggiungere la colonia di Cobbler’s Cove dobbiamo fare una faticosa camminata di 2.5 km superando un’aspra collina di 300 metri circa in mezzo alla pietraia e al tussock e sotto lo sguardo minaccioso dei soliti maschi di foche della pelliccia. Il percorso non sarebbe lunghissimo, ma la ripida pendenza e soprattutto la bardatura che abbiamo addosso (stivali, giaccone, maglione, pantaloni waterproof) lo rende davvero impegnativo. Alla fine abbiamo il fiatone, ma l’obiettivo è raggiunto: davanti agli occhi abbiamo la colonia di macaroni penguins che sta dall’altra parte della collina. Ci avviciniamo fino a pochi metri, tra i rimproveri delle guide che chiedono una distanza maggiore. Sono molto simili ai rockhopper delle Falkland, ma più grandi e con un vezzoso ciuffo di colore arancione.

Sotto la colonia c’è uno scoglio (rookery) con centinaia di coppie pronte a lanciarsi alla caccia del krill. Le pendici delle colline che circondano gli scogli sono tappezzate di nidi, ma sono molto lontane e a causa delle spaccature nel terreno e dei dirupi a strapiombo sul mare non possiamo arrivarci. Rimaniamo un po’ stupiti nel vedere come i pinguini con le loro tozze gambette palmate riescono a salire sulle ripide pendici della collina meglio di noi.

Intanto la colonia che abbiamo raggiunto si lascia fotografare docilmente alla canonica distanza di sicurezza di 5 metri stabilita dalle guide.

Grytviken: la città fantasma sul mare dove le balene venivano trasformate in detersivi    

E’ un pomeriggio di sole pieno, una vera rarità qui in South Georgia, quando attraversiamo la Cumberland Bay e arriviamo a Grytviken, l’unico centro stabilmente abitato di tutta l’isola. Qui, nella base di King Edward Point, lavora continuativamente un gruppo di scienziati e ricercatori, 80-100 d’estate e la metà in inverno. Una ricercatrice del South Georgia Heritage Trust sale a bordo per fornirci una panoramica del progetto di restauro dell’habitat e in particolare del piano di derattizzazione totale dell’isola, processo che si è concluso da poco.

Grytviken, termine norvegese che vuol dire “la baia dei pentoloni”, è l’unica delle antiche stazioni baleniere che si può visitare, essendo stata ripulita e liberata da tutte le installazioni pericolanti e in particolare dall’amianto. Tra le strutture arrugginite si aggirano le foche che ne hanno fatto dimora e rifugio.

In questa base, e in altre basi costruite nelle baie dell’isola, per decenni fu perpetrato un vero e proprio massacro di foche dalla pelliccia, elefanti di mare e soprattutto balene di ogni specie, cioè tutti gli animali che potevano essere utilizzati per ricavare l’olio. Nel novembre del 1904, quando il capitano e baleniere norvegese Carl Anton Larsen fondò questo villaggio nella lontana e gelida Georgia del Sud, non avrebbe potuto immaginare che presto l’avrebbero abitato oltre 500 persone, in gran parte norvegesi, né tantomeno che l’epoca d’oro della caccia alla balena sarebbe tramontata in meno di sessant’anni. Allora, l’olio estratto in enormi quantità dai grandi cetacei era utilizzato per illuminare paesi e città di mezzo mondo, veniva impiegato come fluido per le trasmissioni degli automezzi, se ne ottenevano sapone, detersivi e perfino la margarina, dopo essere stato idrogenato. Le ossa, finemente triturate, diventavano invece un fertilizzante a buon mercato. Flotte di baleniere, armate dalle potenze navali di quei tempi, solcavano ininterrottamente i mari e gli oceani da una calotta polare all’altra, procedendo a uno sterminio di proporzioni bibliche. L’uomo non era ancora giunto a possedere un’autentica coscienza del proprio impatto sull’ambiente – e in parte non ci è arrivato neppure ora – di modo che nessuno comprendeva la portata dell’immensa mattanza che avrebbe presto portato sull’orlo dell’estinzione specie maestose come la balena franca e altri misticeti. D’altra parte, il progresso reclamava le sue vittime sacrificali e i grandi profitti derivati dalla produzione dell’olio di balena venivano pagati a caro prezzo da uomini costretti a vivere in condizioni estreme, sia in mare, sia a terra. Nei primi anni del Novecento sulle coste settentrionali della Georgia del Sud sorsero addirittura sette stazioni per la caccia alla balena, ma ben presto Grytviken, che godeva di una buona posizione nella baia di Cumberland e di una gran quantità di acqua potabile, divenne l’insediamento più popoloso e attivo.

In tempi record furono costruite abitazioni e impianti produttivi, installati i grandi bollitori dove veniva sciolto il grasso di balena, approntati gli enormi serbatoi nei quali stoccare l’olio prodotto; nel volgere di qualche stagione sorsero un attrezzato cantiere navale, una stazione meteorologica e perfino una sala cinematografica e una piccola chiesa luterana, l’unica struttura che non ha cambiato destinazione d’uso fino ad oggi. Voluta dalla Compañia Argentina da Pesca, società fondata dallo stesso Larsen e alcuni ricchi investitori di nazionalità diverse, Grytviken conobbe un immediato successo. Già nella prima stagione vennero lavorate le carcasse di quasi 200 balene. Eccitati dalle buone prospettive di guadagno e in egual misura afflitti dalla solitudine in un mondo così desolato, molti balenieri e operai presero a far giungere le proprie mogli e altri familiari. Nell’ottobre del 1913 a Grytviken vide la luce il primo bimbo mai nato a sud della Convergenza Antartica, cioè la fascia di mare che circonda il continente di ghiaccio, là dove le gelide acque polari incontrano quelle più calde delle zone temperate.

I rifornimenti di derrate alimentari e quanto necessario a una sopravvivenza per lo meno dignitosa erano garantiti dall’arrivo, circa ogni due mesi, di una nave cargo che ripartiva con le stive colme del prezioso olio. La vita era durissima, come si può immaginare, e se Jack London avesse conosciuto quest’ultima Thule, l’avrebbe descritta con enfasi in uno dei suoi romanzi; il fetore delle carcasse in decomposizione a tratti era insostenibile, le condizioni igieniche erano per lo meno rivedibili e, appena ne avevano la possibilità, gli uomini annegavano nell’alcool le proprie angosce. Le attività di pesca e trasformazione si facevano frenetiche durante l’estate australe, da ottobre a marzo, per ridursi a semplici routine di sussistenza durante i durissimi inverni, quando molti preferivano tornare nei propri paesi d’origine, lasciando però sul posto un manipolo di ardimentosi che si prendevano cura della flotta peschereccia e delle varie installazioni.

L’importanza commerciale di questo centro operativo subantartico era enorme. Durante la seconda guerra mondiale, la marina militare britannica si vide costretta ad armare un vecchio mercantile per pattugliare le acque dell’isola e costruì persino due postazioni di artiglieria – manovrate da volontari – per difendere la baia dagli attacchi delle navi corsare tedesche, che peraltro riuscirono a sorprendere e semidistruggere gran parte delle altre installazioni di Stromness, Husvik e Ocean Harbor.

Gli impianti per la macellazione delle balene  

Nel periodo d’oro della caccia alla balena (1910-1950) qui venivano macellate fino a 35-40 balene al giorno, che rendevano l’ambiente “un ossario bollente nella vaselina, puzzolente di pesce rancido, letame e conceria mescolati assieme“, come risulta dai racconti di alcuni cronisti che vennero qui in quel periodo. Un filmato scioccante, che viene proiettato nel museo eretto tra le rovine, mostra come in soli 20-30 minuti una balena veniva completamente scuoiata dello strato di grasso, con delle apposite grandi lame montate su bastoni dal lungo manico (“flensing knives”). Il grasso veniva poi bollito, nelle caldaie che si vedono ancora oggi, per ricavare l’olio.

I silos di bollitura, i decantatori, i separatori, le pompe e i serbatoi arrugginiti che brillano alla luce del sole sono una inquietante testimonianza di archeologia industriale destinata al trattamento del grasso animale, proveniente da foche, elefanti di mare e balene. Nell’impianto principale si vede ancora il nastro trasportatore su cui venivano caricati i pezzi di balena macellati, quindi la tramoggia di raccolta e la grande caldaia per la bollitura. Accanto a questo, c’è un altro impianto montato in un secondo tempo dietro ingiunzione del governo delle Falkland, che obbligò i gestori della stazione, cioè la “Compañia argentina de pesca”, a trattare anche la carne, le viscere e le ossa delle balene, che stavano provocando gravi problemi di inquinamento ambientale. Pare che in alcuni periodi dell’anno il fetore delle carcasse in decomposizione qui fosse quasi insopportabile. Da carne e ossa, in effetti, si poteva ricavare una ulteriore quota di olio, circa il 20% del totale.

Questa frenesia operativa e gli alti guadagni che derivavano dalla vendita dell’olio permettevano ai balenieri che lavoravano qui di ottenere un salario altissimo, che li ricompensava dalle condizioni di lavoro estreme, dal freddo, dal vento, dalla puzza dei resti organici in decomposizione. Qualche anno di lavoro qui avrebbe garantito alle loro famiglie una buona sistemazione economica per il resto della vita, così le richieste di lavoro non mancavano. Confusa tra i lamenti dei gabbiani e gli acuti stridii delle sterne, portata dal vento che geme tra le lamiere arrugginite sparse tutto attorno, a tratti pare di udirne ancora l’eco delle voci, frammiste ai rumori di attività da lungo tempo cessate. Le imponenti montagne innevate, disposte all’orizzonte come per abbracciare i resti del popoloso insediamento che fu Grytviken, stanno silenti a osservare il lento disfacimento di baracche, serbatoi, installazioni portuali, inviolate e impassibili com’è stato dalla notte dei tempi e come sarà fino al termine dei giorni.

Il piccolo ma emozionante museo di Grytviken, costruito nell’edifico che in origine era la residenza del dirigente della stazione e della sua famiglia, mostra strumenti di balenieri, arpioni, attrezzi per sezionare i cetacei e molti reperti della dura vita del lavoratori, racconta la vita di questa gente, che era riuscita addirittura a costruire una scuola, una biblioteca e persino una pista per il salto con gli sci.

La pista terminava proprio vicino alla chiesetta luterana nota come “la cattedrale dei balenieri”, restaurata di recente, che peraltro la usavano più come deposito per le patate che per scopi religiosi. Nella biblioteca della chiesetta c’è l’ex voto di Reinhold Messner, che nel 2000 ripercorse la traversata di Shackleton da King Haakon Bay nella costa sud fino alla baia di Stromness dall’altra parte dell’isola.

Nel porto abbandonato giacciono i patetici relitti di tre vecchie navi baleniere. Sulla prua della Petrel, argentina, si staglia inquietante il cannone con l’arpione provvisto di carica esplosiva che serviva per la caccia delle balene. Gli altri due relitti sono quelli della Dias, nave per la caccia alle foche, e della Albatros, baleniera di 210 tonnellate spiaggiata qui dal 2004. Ogni nave baleniera poteva trascinare fino a 13-14 carcasse di cetacei galleggianti, legate alla fiancata dello scafo.

La stazione è rimasta operativa fino al 1961. Poi, la drastica diminuzione dei cetacei causata dalla caccia indiscriminata e l’avvento di prodotti lampanti più moderni ed efficaci come cherosene e petrolio, decretarono il rapido declino dell’epica caccia alle balene. Nel 1966 ogni attività cessò definitivamente a Grytviken e lo stesso destino toccò alle altre stazioni, oggi ridotte a silenti ammassi di rovine, inavvicinabili per il rischio di crolli improvvisi e per la presenza di amianto. Dell’incredibile epopea ai confini del mondo abitabile, in quella che per pochi decenni fu la capitale non dichiarata della Georgia Australe, resta solo una distesa di ruderi e macchinari arrugginiti, sparsi come le carcasse di creature mitologiche appartenute a un’era tramontata. In decenni di abbandono le abitazioni sono in gran parte collassate sotto il peso delle nevicate invernali e infine sono state smantellate, tanto che ormai ne restano solo le fondamenta in cemento e pietra.

Nel periodo di attività della base qui furono macellate circa 175.000 balene. A queste si devono aggiungere quelle lavorate direttamente dalle baleniere in mare, che furono molte di più, circa 40.000 all’anno per oltre un ventennio. Furono prodotti 2.767.456 barili di olio, pari a 455.020 tonnellate. Inoltre, sono state prodotte 195.315 tonnellate di carne di balena. Prima dell’avvio degli impianti di trattamento delle balene, la base macellava foche e elefanti di mare. Il numero di questi animali uccisi non è stato calcolato, ma è stimato in diversi milioni. Lo sterminio delle foche fu totale: attorno agli anni ’50 non si contavano più di 100-200 foche dalla pelliccia in tutta la South Georgia. Oggi per fortuna la popolazione si è ricostituita: si stima che ci siano 5-6 milioni di foche e qualche centinaio di migliaia di elefanti di mare.

La tomba di Shackleton

A poca distanza dagli impianti abbandonati c’è un piccolo cimitero. Qui è sepolto il grande esploratore Ernest Shackleton, assieme al suo secondo Frank Wild e agli operai morti sul lavoro nella base baleniera. L’ambizione di Shackleton era conquistare un traguardo mai raggiunto: attraversare a piedi dell’Antartide. Il 5 Dicembre del 1914 la nave Endurance, con Shackleton e il suo equipaggio a bordo, salpa da Grytviken per i mari del profondo sud… ma nessuno immagina che non solo non ci sarà alcuna traversata a piedi dell’Antartide, ma che la spedizione non riuscirà nemmeno ad approdare sul continente bianco, bloccata nella morsa della banchisa del mare di Weddell, a sole 80 miglia dalle coste dell’Antartide. La nave, intrappolata nel pack “come una nocciolina in una tavoletta di cioccolata” viene trascinata inesorabilmente verso nord-ovest dalla deriva dei ghiacci per più di 1000 miglia nautiche, in una lenta agonia che durerà oltre 9 mesi, prima di essere schiacciata, demolita e divorata dalle enormi tensioni nel pack. Gli uomini della spedizione passano 5 mesi in un accampamento alla deriva sul pack e poi sui lastroni di ghiaccio, fino a raggiungere dopo mille peripezie Elephant Island, la più orientale delle Shetland australi, dove si accamparono presso l’attuale Point Wild, all’interno di una scialuppa capovolta. Il 24 Aprile del 1916 Shackleton e altri membri della spedizione tentarono qualcosa di eroico e umanamente quasi impossibile: l’attraversamento delle 800 miglia nautiche nel tempestoso mare di Scotia, nella scialuppa di 6 metri “Caird”, con l’idea di raggiungere la Georgia Australe e chiedere soccorso ai balenieri norvegesi per tornare a recuperare gli uomini rimasti su Elephant Island. Una replica del Caird si trova nella galleria adiacente al museo di Grytviken, costruito per l’IMAX del film Shackleton Antarctic Adventure.

L’incredibile impresa ebbe successo, ma la scialuppa riuscì ad approdare solo sul lato orientale disabitato della Georgia Australe il 15 Maggio 1916. Gli uomini furono costretti ad attraversare una catena montuosa ancora sconosciuta, mai mappata in precedenza e coperta da maestosi ghiacciai pieni di crepacci, prima di giungere finalmente a Stromness. Dopo venti mesi passati in condizioni estreme, tutti gli uomini, inclusi quelli accampati su Elephant Island, risulteranno sani e salvi. Shackleton morì di attacco di cuore a soli 47 anni, durante una nuova spedizione verso sud e per volere della moglie fu sepolto a Grytviken.

L’impresa di Shackleton è ricordata come una delle più ardimentose e incredibili nella storia della conquista dei territori antartici. Su questa tomba abbiamo fatto una foto ricordo dispiegando la bandiera italiana, che  il compagno di viaggio avvocato Daniele di Casalpusterlengo ha portato apposta.

La visita degli impianti di Grytviken e della tomba di Shackleton è stato uno dei momenti più interessanti e emotivamente coinvolgenti di tutto il viaggio.

Ocean Harbour

Il terzo giorno in Georgia del Sud inizia un po’ grigio, anche se c’è calma di vento. La baia di Ocean Harbour è la prima meta della giornata. Sulla spiaggia vediamo per la prima volta gli elefanti di mare. Un gruppo di questi enormi pachidermi dell’oceano se ne sta spaparanzato in apparente immobilità, aprendo appena un occhio sonnolento per vedere chi è l’intruso venuto a disturbare la loro invidiabile pace antartica. Guai però ad avvicinarsi troppo, il morso è tremendo e se ne vedono le tracce sul collo di vari esemplari. Nel 2016 un incauto turista intento a scattare foto inciampò in un elefante di mare, che si rivoltò e lo morse a un braccio provocandogli una ferita profonda. La nave dovette fare precipitoso ritorno alle Falkland, a Stanley dove c’è l’ospedale più vicino. Gli elefanti marini che vediamo sono individui giovani e di media età venuti qui per la muta, ma pesano già 1.5-2 tonnellate. Da adulti raddoppieranno di peso. Quando decidono di spostarsi sono di una comicità assoluta: si trascinano per 3-4 metri, che è il massimo tratto che riescono a fare a ogni tentativo, con spinte delle pinne e della coda, poi ripiombano pesantemente a terra. Ogni tanto due maschi si ergono sulle pinne e cominciano a duellare a colpi di panzate, grugniti e morsi, per una questione di qualche metro di territorio in più. Con le fauci aperte, anche solo per un innocente sbadiglio o un rutto, mettono un po’ di inquietudine. Dopo tre o quattro testate con esibizione delle fauci spalancate, uno dei due si ritira senza alcuna apparente ragione tale da giustificare la vittoria o la sconfitta. Lascio la zona degli elefanti di mare perché a un centinaio di metri di distanza c’è un grande trambusto di skua e procellarie. Vediamo cosa succede.Una giovane foca difende il proprio piccolo dagli assalti sempre più frequenti e insistenti dei rapaci, soprattutto da due enormi procellarie che attaccano ripetutamente il piccolo prendendolo a beccate. Il cucciolo di foca pare già morto, ma la madre tenta di rianimarlo con leccate e piccoli buffetti col muso. Le procellarie però si sono accorte che il cucciolo è una preda accessibile, e intensificano gli attacchi verso la giovane foca cercando di strapparle il corpicino inanimato. Per mezz’ora la foca difende il piccolo dagli attacchi degli uccelli, poi sfinita si arrende. Una grossa procellaria glielo strappa via. Per dare un’idea delle dimensioni e della potenza di questi uccelli, consideriamo che il cucciolo di foca sarà 8-10 kg, ma il rapace lo trascina via sbattendo le grandi ali senza apparente difficoltà.

Lo strazio prosegue con la procellaria che affonda il becco nel piccolo cadavere strappando le viscere e inghiottendole. Il resto, quello che ancora rimane attaccato alle ossa, toccherà agli skua. Una scena drammatica e straziante, che è vita quotidiana in queste lande. Sono riuscito a documentare questa scena con dei filmini che lo staff di Oceanwide mi ha chiesto di copiare e di potere usare per una presentazione: no problem. Lasciamo la baia passando davanti al relitto del Bayard, un tre alberi arenato qui dal 1911. I cormorani ne hanno fatto la loro casa, e gracchiano indignati quando passiamo troppo vicino ai nidi con lo zodiac.

Leith Harbour

Pomeriggio dedicato a una zodiac cruise per vedere la base baleniera di Leith Harbour, che sta in un’altra insenatura della Cumberland Bay, grande riparo naturale dove furono costruite ben 4 stazioni di trattamento delle balene: Grytviken, Leith, Stromness e Husvik. Leith fu fondata nel 1909, prendendo il nome da un sobborgo di Edimburgo, dove la compagnia di balenieri scozzesi Christian Salvesen & Co. Ltd. aveva la sua sede principale. Il porto di Leith era la più grande base operativa baleniera della Georgia del Sud. Nel periodo di massimo splendore, attorno al 1930, questa era un’affollata città baleniera che brulicava di oltre 300 addetti che processavano cetacei, riparavano le navi della flotta baleniera, scaricavano rifornimenti e caricavano i prodotti delle balene per la spedizione verso i lontani mercati europei e americani. Qui c’erano persino un cinema e un campo da tennis. Il cinema proiettava solo una dozzina di film, ripetendoli a rotazione, perché chiaramente in questo territorio lontano non c’era molta possibilità di ricambio dello stock di pellicole. Non è stato possibile avvicinarci a meno di 200 m dagli impianti di Leith a causa dei rischi dell’amianto una volta usato nei materiali da costruzione.

Tuttavia, la zodiac cruise ci ha offerto splendide viste degli edifici industriali abbandonati, dei tre moli ricoperti di vegetazione, del piano di squartamento delle balene, dei serbatoi di stoccaggio e degli alloggi. Gli animali si sono impadroniti dell’area. Le immancabili foche dalla pelliccia hanno requisito ogni spazio disponibile sulla spiaggia, per riprodursi, litigare, giocare e riposare. Tra gli ammassi di kelp, un gruppo di sterne antartiche si tuffa in picchiata per raccogliere pesci e gamberetti per la prole. Tutto attorno, spoglie montagne stratificate circondano la baia. La geologa dello staff ci spiega come si sono formati gli strati sovrapposti di roccia sedimentaria di colori diversi che caratterizzano le formazioni della Cumberland Bay.Ritorniamo a bordo della Plancius, che punta verso sud per le avventure del giorno dopo.

Gold Harbour e Drygalski Fjord

Oggi sveglia alle 4.45 di mattina, quindi per una volta il consueto annuncio “Good morning everyone” non viene accolto con calore, anche perché subito dopo Lynn dall’altoparlante annuncia che lo sbarco a Gold Harbour, previsto per le 5.30, è stato rimandato causa vento, e quindi si può rimanere a dormire ancora un paio d’ore.

Finalmente alle 8 il vento è calato e si può fare lo sbarco con gli zodiac. L’atterraggio a Gold Harbour è strabiliante. Una colonia di grandi elefanti di mare ci accoglie con una cacofonia di ruggiti, rutti, sbuffi e strombazzamenti. Sono cuccioli, ma alcuni arrivano già a un paio di tonnellate (da adulti il loro peso raddoppierà). I maschi lottano tra di loro per la difesa dell’harem e delle femmine, più piccole e pesanti “solo” 6-7 quintali, ergendosi sulle pinne e schiantandosi l’uno contro l’altro con violentissimi colpi e morsi. Le cicatrici dei combattimenti sono ben visibili sul collo degli individui che giacciono spaparanzati sulla spiaggia.

Ogni tanto qualche maschio si sposta pinneggiando goffamente, con un ridicolo ondeggiamento di cuscinetti di grasso che si muovono ritmicamente, fino a raggiungere l’acqua. E allora accade il miracolo: tanto impacciati e comici nei movimenti appaiono questi giganteschi pinnipedi sulla terra, tanto leggiadri e disinvolti si muovono nell’acqua, che in effetti è il loro reale ambiente naturale perché ci stanno 9-10 mesi all’anno. Vengono sulla spiaggia solo per la riproduzione (in ottobre-novembre) e per la muta (in gennaio-marzo).

Un po’ più nell’interno, nel tussock, le foche hanno occupato i vagoni arrugginiti dell’antica ferrovia che qui i balenieri avevano costruito per il trasporto di pezzi di balena. Con un po’ di circospezione riusciamo a farci strada e a dirigerci verso il Bertrab Glacier che domina la baia. Dall’alto la panoramica sulla spiaggia affollata da pinnipedi e pinguini è eccezionale. Torniamo sulla nave per il pranzo, mentre la Plancius naviga verso sud-est lungo la costa della Georgia.

All’estremità sud-orientale dell’isola, entriamo nel Drygalski Fjord.

Questo fiordo penetra per 14 km nell’entroterra e fornisce una buona raffigurazione dell’interno alpino della Georgia del Sud. Magnifici ghiacciai, vallate profonde e cime aguzze dominano il paesaggio. L’acqua turchese splende per il biancore dei blocchi di ghiaccio che si staccano dalle montagne. Su un lastrone di ghiaccio una foca leopardo ci saluta sollevando la testa al passaggio della nave. Procellarie bianche e sterne antartiche ci accompagnano speranzose di ricevere qualcosa (ma gettare cibo dalla nave è ovviamente cosa vietatissima).

Il panorama del fiordo è meraviglioso, siamo tutti fuori sul ponte a scattare centinaia di foto, fino a quando arriviamo al ghiacciaio Risting in fondo al fiordo. Sulla destra, dalle nere pareti rocciose che si specchiano nelle acque celesti, alcune cascatelle scendono in mare, formate dallo scioglimento dell’altro ghiacciaio Jenkins Glacier.  Il posto è ideale per la foto ricordo del gruppo, che Sara, la fotografa ufficiale della Plancius, scatta tenendo come sfondo le splendide montagne stratificate della Georgia del Sud. Foto ricordo anche per me, con gli amici brasiliani Rogerio e Vera.

Subito dopo aver lasciato il fiordo avvistiamo un gruppo di balene. Sono humpback whales, megattere. Una balena si diverte a schiaffeggiare l’acqua con la gigantesca coda: è un’espressione del breaching, fenomeno che spinge le balene a esibirsi fuori dall’acqua, con la coda come stanno facendo queste che vediamo noi, oppure talvolta facendo grandi balzi con tutto il corpo. Perché lo facciano è un mistero. Secondo alcuni naturalisti lo fanno per divertirsi, secondo altri per liberarsi di crostacei attaccati al corpo, secondo altri ancora per marcare il territorio nei confronti di un gruppo di balene vicine. Lasciamo la South Georgia con tante immagini e tanti ricordi. Quasi quasi abbiamo dimenticato che è il 31 dicembre, e allora doppio brindisi: alle 9 per noi europei che siamo 3 ore indietro rispetto all’ora di casa, a mezzanotte per gli altri. Buon anno a tutti!!

1 gennaio: in mare verso le Orcadi

Lunga giornata di navigazione nella nebbia. Non si vede niente. Nel pomeriggio Adam Turner, lo storiografo dello staff, ci narra il viaggio di Ernest Shackleton con l’Endurance e la successiva traversata dell’oceano da Elephant Island con la scialuppa battezzata James Caird, poi la traversata a piedi della South Georgia in sole 36 ore, da King Haakon Bay fino a Stromness. Reinhold Messner l’ha ripetuta nel 2000, con equipaggiamento moderno e strumentazione di orientamento, e ci ha messo 12 ore in più.

Alla sera troviamo in cabina una tavoletta di cioccolato con scritto “buon anno” in una decina di lingue… tra cui non c’è l’italiano. Sigh…

2 gennaio: South Orkney Islands (Orcadi meridionali)   

Passiamo davanti a Laurie Island osservando i rossi edifici della base argentina Orcadas, proprio mentre la Almirante Irizar, nave con i rifornimenti, sta entrando in baia.

Abbiamo raggiunto le Orcadi Meridionali (South Orkney Islands), e quindi siamo ufficialmente entrati in Antartide, nei territori non soggetti alla sovranità di alcun paese ma dove vigono le regole del Trattato Antartico stipulato nel 1959. Tramite il trattato i paesi firmatari rinunciano alla sovranità territoriale, allo sfruttamento economico e all’utilizzo per scopi bellici delle terre del continente antartico. Le Orcadi sono una meta raramente inclusa nei percorsi turistici e in generale assai poco frequentata. Il capitano Iakovlev comunica che procederà lentamente perché non è mai stato in queste acque e non dispone di carte nautiche dettagliate di questi territori.

Cominciamo a vedere i grandi iceberg che si sono staccati dalla calotta antartica. La maggior parte sono iceberg tabulari, a volte lunghi parecchi kilometri, altri invece assumono le forme più svariate, che con la fantasia associamo a torri, piramidi, cattedrali, colonne e quant’altro ci viene in mente.

Sbarco con gli zodiac a Shingle Cove, una piccola baia di Coronation Island, la più grande delle Orcadi Meridionali. Sono ben pochi gli approdi su questa isola. Sulla destra l’impressionante fronte di quasi 1 km del Sunshine Glacier. Una rumorosa colonia di pinguini di Adelia ci accoglie con curiosità.

I pinguini di Adelia hanno il becco e gli occhi neri e sono quelli più simili allo stereotipo di pinguino a cui siamo abituati. Mescolati ad essi fanno capolino qualche gentoo dal becco rosso e qualche chinstrap, che finora avevamo visto solo in fotografia.

Negli anfratti della scogliera nidificano le bianchissime snow petrels, le procellarie bianche, che sono molto più piccole e meno aggressive rispetto ai giant petrels che abbiamo visto in South Georgia. Al riparo dal vento sonnecchia un gruppo di elefanti di mare a cui si sono mescolate le grandi foche di Weddell, che vediamo per la prima volta.

 

6 gennaio: le Shetland del Sud   

Arriva l’ultimo giorno in Antartide. Siamo nelle South Shetland, che si trovano 200 km a nord della penisola antartica e sono l’ultimo gruppo di isole che fanno parte dei territori antartici.

Yankee Harbour

Sveglia all’alba oggi. La prima partenza con gli zodiac è fissata già per le 5.30.  Abbiamo passato il Mc Farlane Strait e raggiunto le South Shetland. Il primo approdo è a Yankee Harbour, un grande porto naturale protetto dalle montagne che veniva spesso usato da cacciatori di foche e balenieri molti anni fa. Prende il nome dalle numerose navi americane che solevano ancorare e operare in questa zona. Un vecchio calderone rotto usato per sciogliere il grasso di foca e di balena funge da promemoria della storia della zona. Una grande colonia di pinguini gentoo, quelli col becco rosso, popola l’arco a mezzaluna che delimita quella che in passato era l’area portuale. Assistiamo alla scena drammatica di due skua che strappano un pulcino di gentoo dal nido e se lo contendono a strappi e morsi fino a quando rimane solo la carcassa.

Half Moon Island 

Secondo approdo nelle Shetland su questa bizzarra isola a forma di mezzaluna che ci regala uno degli scenari più belli visti sin qui. Rimettiamo per l’ultima volta i salvagenti a collare, che ormai abbiamo imparato a indossare, e gli stivali di gomma, che invece si fa sempre una fatica boia a togliere. Half Moon Island sembra un palcoscenico. Neri pinnacoli di roccia basaltica delimitano ogni dosso, lagune dove le montagne e i ghiacciai si tuffano in mare, ammassi di kelp che brillano sotto i raggi del sole che vanno e vengono, e ciliegina sulla torta il relitto di una vecchia scialuppa abbandonata sulla spiaggia.

Tra le colonne di basalto rumoreggia una numerosa colonia di piccoli pinguini. Sono i simpaticissimi chinstrap, quelli dal sorriso enigmatico che ancora non avevamo ancora visto in così grande quantità. L’impressione che sorridano sempre è generata da una striscia nera sottogola che sembra uno smile.

Ci sono quelli che fanno rifornimento di krill, quelli che raccolgono pietre per il nido portandole col becco, quelli che litigano con i vicini, quelli che rubano le pietre agli altri… Molti nidi sono affollati dai pulcini, alcuni già piuttosto grossi anche se ancora grigi in attesa della muta. Stranamente non ci sono in giro predatori.

Ci mettiamo alla ricerca di Kevin …ma chi è Kevin? E’ un pinguino macaroni che da anni vive solitario in questa colonia di chinstrap. Lo si può riconoscere facilmente per il ciuffo di piume arancione ai lati della testa, ma oggi Kevin non c’è. Forse è a caccia, forse si è nascosto, forse sta dormendo. Bisogna accontentarsi di una sua foto scattata durante la visita del gruppo che ci ha preceduto qui.

Ritorno a Ushuaia

Come tutte le cose belle, anche questo viaggio ai confini del mondo sta per finire. Inizia il temutissimo attraversamento del Drake Passage. Tutti vanno a prendere la xamamina, il travelgum e i cerotti che rilasciano scopolamina.

Ma il barometro che c’è nella sala di lettura segna 1002 mbar: una pressione così alta raramente si registra da queste parti. I due giorni e mezzo di viaggio per arrivare a Ushuaia filano via lisci come l’olio. Una bella fortuna, perché i membri dello staff ci raccontano che durante la traversata precedente c’erano onde di 9 metri che spazzavano il ponte, e stavano male quasi tutti. Adesso invece persino gli albatros, che ci eravamo abituati a vedere attorno alla Plancius nei giorni di navigazione, sono riluttanti a seguirci, perché a causa della mancanza di vento dovrebbero spendere troppe energie per volare attorno alla nave.

Arriviamo a Ushuaia nelle prime ore della notte del 9 gennaio. Per l’ultima volta sentiamo l’annuncio bon appetit my favourite friends che ci invita alla colazione. Fuori è già pronto il pullman per il transfer all’aeroporto.

Si torna a casa con gli occhi pieni di immagini, la mente piena di ricordi, la sensazione di avere vissuto un sogno ad occhi aperti. Racconteremo ad amici, parenti e nipotini l’esistenza di un mondo lontano e incontaminato dove la natura è padrona assoluta, descriveremo come è la luce quando non è annebbiata dall’inquinamento luminoso, parleremo di animali abituati a vivere in condizioni estreme, racconteremo i momenti drammatici che per esigenze di sopravvivenza vanno in scena ogni giorno. Tanti filmini e tante foto per mostrare la bellezza di questo mondo quando l’uomo lo rispetta, lo osserva e lo studia ma non interviene per cambiarne le caratteristiche e sfruttarne le risorse. Sapere che ci sono posti così ci aiuta a vivere.

Riepilogo

Miglia nautiche navigate: 3566 (6604 kilometri)

Temperatura: generalmente sopra 0 °C. Minima -2 °C un paio di notti, massime attorno a 8 °C.

Costo del viaggio: tantissimo, troppo

Animali visti: di tutto

  • Balene: una cinquantina (megattere, fin whales, sei whales, minke whales)
  • Pinguini: mezzo milione o forse più (200.000 solo a Salisbury Plain), di 7 specie diverse: magellanici, gentoo, rockhopper, king, macaroni, di Adelia, chinstrap. Visto anche un giovane pinguino imperatore su un lastrone di ghiaccio.
  • Altri uccelli: anatre delle Falkland, cauquenes, albatros, procellarie giganti, sterne, fulmari, gabbiani, ossifraghe, beccacce di mare, snowy sheathbills, chioni, skua, cormorani, caracara, prioni, oystercatchers, wilson storm petrels.
  • Elefanti di mare: qualche centinaio.
  • Foche: migliaia. In prevalenza fur seals (otarie orsine), 3 foche leopardo, una decina di foche di Weddell, una decina di crabeater seals.

La parte del viaggio che riguarda l’Antartide è stata descritta nel diario “Viaggio ai confini del mondo – dalla Patagonia all’Antartide”.

Ringraziamenti  

Grazie ai compagni di viaggio, allo staff di Oceanwide e a chi ha letto il diario e ha avuto la costanza di arrivare fino a qui.

Luigi

luigi.balzarini@studio-ellebi.com

The post Viaggio ai confini del mondo – 2: Falkland, South Georgia, Orcadi e Shetland appeared first on Il Giramondo.


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