Grazie a Patrizia che con pazienza ha modificato il programma fino a includere, nei nostri soliti 10 giorni, anche il pernottamento a Rongbuk
24.09 Festeggiando sul volo KLM un compleanno (con brindisi offerto dalle hostess) giungiamo a Chendu
25.09 In aeroporto ci accoglie una addetta dell’agenzia che ci assiste per la dogana e soprattutto per i visti e le formalità per il Tibet. Abbiamo il tempo per fare 2 passi sia dentro che fuori dall’aeroporto dove tutto inneggia ai panda. Poi, con lungo sorvolo di catene montuose brulle seguite dall’immenso Brahmaputra (qui ancora chiamato Yarlung Tsamgpo) giungiamo in Tibet. Dopo tanti preparativi per inserire nel programma tutte le destinazioni che ci interessano e per essere tranquilli di non correre pericoli con il mal di montagna, vista l’intenzione di dormire a Rongbuk, eccoci in Tibet! Ad accoglierci Tapso, la guida, una ragazza tibetana molto minuta e sorridente che ci mette al collo le prime sciarpe bianche lucide, e l’autista, anch’egli tibetano. La strada per Lhasa è ampia e ben asfaltata (saranno così tutte le strade che percorreremo in Tibet, escluso quelle sterrate all’interno del parco dell’Everest), affiancata da numerose serre in muratura e vetro/plexiglass e case in stile tibetano fatte costruire dal governo cinese (solo qui e pare per fare buona impressione sui turisti). Durante il tragitto Tapso ci da consigli per un buon adattamento all’altitudine. L’arrivo in Lhasa è preannunciato dall’incremento del traffico e dall’imponente Potala, oltrepassata la piazza con il monumento agli yak il traffico di motorette e risciò diventa caotico. Tapso ci fa notare sulle insegne la differenza fra la scrittura tibetana e quella cinese che per fortuna sono sempre accompagnate dalla scritta in inglese. Il nostro hotel Shang Bala è in un cortile del centro storico e la breve strada di accesso si affaccia direttamente sul Barkhor e sulla piazza del Jokhang. Ceniamo in un ristorante sulla piazza del Jokhang: il nostro pasto tipico è composto da una crema di verdure, una bistecca di yak ai ferri con patate fritte e verdure al vapore, tutto sempre ottimo!, il locale è simpatico: l’accesso alla toilette è chiuso da un telo bianco con stilizzata una figura femminile grottesca. Finita la cena è ancora chiaro e quindi ci avventuriamo subito sulla piazza fra moltissima gente, spesso con la mascherina, che fa il kora (cioè la processione intorno al tempio pregando); vicino all’ingresso del tempio molti fedeli (attrezzati con tappetino, coprimani e vestiti legati alle gambe) ripetono più e più volte il rituale che prevede di distendersi a terra con una sequenza di movimenti. Non mancano i monaci col cellulare, i bambini con i pantaloni aperti dietro (per evitare i pannolini), i commercianti che alla chiusura serale del banchetto si caricano sulla schiena enormi casse per portare via la mercanzia e le ronde composte ciascuna di 5 militari armati che pattugliano costantemente la piazza ed il Barkhor. La piazza ed il Barkhor con la moltitudine di gente nei costumi tradizionali sono uno spettacolo splendido ma non possiamo trattenere il pensiero che va alle orrende tragedie che qui si sono consumate. Girovaghiamo fino a notte inoltrata in questa zona dove la pavimentazione deve essere particolare perché non si sentono i rumori delle auto ma solo il vociare delle persone.
26.09 La nostra camera al 3° piano offre una splendida vista sul Potala e sulle montagne (cosparse qua e la di bandierine di preghiera e monasteri che paiono inaccessibili). Dalla finestra curiosiamo sui tetti sottostanti dove alcune donne allargano grandi quantità di lana grezza fra aste di bandierine, parabole e cavi della luce, finestre e balconi sono abbelliti da molti fiori in latte e vasi di ogni genere. Partiamo per la visita del Potala, nei giardini abbondano fiori e dalie stupende, saliamo le rampe con qualche turista e molti pellegrini che spesso indossano costumi straordinariamente belli. Molte donne (anche non più giovani) hanno bimbi legati sulla schiena, molti visitatori ruotano i mulini di preghiera, spesso gruppi familiari e giovani chiedono di fare una foto con noi. Cerchiamo di immaginare il lago antistante il palazzo ora sostituito da una immensa piazza. Nel palazzo ci addentriamo fra le mille stanze grandi e piccole. All’uscita percorriamo un breve tratto di strada fra negozi con enormi forme di burro di yak, pentolame smaltato, grandi pezzi di carne, alberi con tronchi ricoperti da bandierine e sciarpe bianche. Strada facendo Tapso ci spiega la condizione difficile della donna in Tibet, in particolare nella zona dell’Amdo (da dove lei proviene): è ancora praticata la poliandria, lei stessa non sa chi sia suo padre in quanto sua madre è andata in sposa a tutti i componenti maschili della famiglia (nel suo caso solo 2 fratelli). Questo causa un pesante fardello per la donna che deve accudire in tutto a più uomini, a molti figli, al bestiame e a tutto quello che riguarda la conduzione familiare della già durissima vita dei nomadi nelle valli inospitali, sperdute e povere della parte nord del Tibet. Per arrivare alla sua famiglia di origine deve viaggiare 2 giorni in bus e 2/3 giorni con mezzi di fortuna in zone prive di strade. Pranziamo In un secondo ristorante sulla piazza del Jokhang, la sala al 1° piano ci permette di vedere come la piazza sia presidiata anche dall’alto infatti ad ogni angolo sui tetti è presente una squadra di militari con le mitraglie puntate (con tanto di ombrelloni per ripararsi dal sole), ma il tutto è addolcito da un gatto sornione che viene in braccio per scroccare non cibo ma un po’ di coccole. La piazza e le strade sono gremite di fedeli in abiti sontuosi, le bancarelle di stoffe e di lane sono una esplosione meravigliosa di colori, molti artigiani sono all’opera con macchine da cucire o altro, le bancarelle di ninnoli e oggetti religiosi fanno sicuramente più affari con i tibetani che con i turisti. Per la visita all’interno del Jokhan Tapso si affianca ad un suo collega che sta accompagnando un gruppo di italiani così possiamo capire più facilmente i tesori del tempio superando le difficoltà che possono crearsi per le descrizioni particolareggiate in inglese. Tapso è molto preparata ed un gruppo di turisti inglesi vorrebbe unirsi a noi. Ceniamo ancora nei pressi del Jokhan e come al solito Tapso non mangia con noi ma prende il cibo in un sacchetto per portalo a casa dove ha un marito senza lavoro ed un bimbo di pochi mesi (per questo non ci seguirà fuori Lhasa). Senza problemi di lingua ci affidiamo ad un ragazzo e con la sua bici-carrozza ci facciamo portare al Potala, parte della vasta piazza antistante è trasformata in una immensa fontana con getti d’acqua che partono dal suolo per uno spettacolo di suoni e luci mentre nella parte a ridosso della collina, su cui si erge il palazzo, si sta svolgendo una cerimonia militare con parate e bande musicali: l’atmosfera è a dir poco molto suggestiva. Per tornare a prendere una bici-taxi percorriamo un sottopassaggio tutto rivestito in lucido marmo ed ovviamente sorvegliato da militari. All’ingresso della stradina che porta al nostro albergo, il ragazzo della bici ha un gran da fare per spiegare ai militari (del posto di blocco fisso) che sta riportando dei turisti in albergo e ci fanno passare solo dopo aver verificato i nostri visti.
27.09 Attraversando Lhasa vediamo sui larghi marciapiedi i dipendenti che, tutti ben inquadrati davanti ai luoghi di lavoro, fanno ginnastica prima di entrare nei rispettivi negozi e uffici. La prima visita della giornata è al monastero di Drepung, anche qui si possono incontrare alcuni turisti cinesi che per evitare il costo del biglietto si fingono pellegrini indossando vestiti tradizionali tibetani. Il monastero è circondato da alcune piccole dimore di monaci eremiti, con capre che mangiano di tutto compreso le borse di plastica. Una parte degli edifici è in fase di ristrutturazione; molte donne portano sulle spalle pesanti sacchi, mentre sotto una tettoia al ritmo di un canto un gruppo di persone allineate batte il pavimento per lisciarlo (utilizzando un arnese simile ad uno scopone). I lavori vengono fatti con metodi antichi e senza l’ausilio di attrezzature motorizzate mentre invece in un cortile laterale un monaco è intento a lavare un’auto. Rientriamo a Lhasa per la visita di Norbulingka (ex palazzo estivo del Dalai Lama), i suoi giardini sono un trionfo di fiori tra cui primeggiano gigantesche dalie e zinnie. Nei brevi tratti di strada percorsi notiamo numerose caserme. Dopo pranzo visitiamo il monastero di Sera dove assistiamo anche al “dibattito” e la cospicua presenza di fedeli tibetani ci convince che questi tanti monaci siano autentici e non stipendiati per dare spettacolo ai turisti. La cena è tipicamente tibetana con un grazioso spettacolo di canti e danze.
28.09 Con il solito autista e la nuova guida Lhamo (ragazza tibetana molto giovane proveniente dal Chamdo che con orgoglio ci racconta di avere un fratello monaco) entrambi sempre molto disponibili iniziamo il nostro viaggio lungo la strada dell’amicizia che collega Lhasa a Kathmandu. Sia Tapso che Lhamo, anche se sollecitate e pur ringraziandoci per la simpatia che dichiariamo verso il popolo tibetano, non parlano del governo cinese e tantomeno citano la repressione; si limitano ad invitarci a non fotografare militari o caserme ed a raccontarci quanto sia difficile per i tibetani trovare lavoro stante l’obbligo di conoscere il cinese (molto spesso infatti per miseria o per le distanze i bambini tibetani non riescono a frequentare le scuole). Ai posti di polizia incontriamo venditori di albicocche, pane ecc., costeggiamo il largo fiume e vediamo i primi picchi innevati. La campagna è tutta coltivata, ci sono molti alberi nonostante i quasi 4000 mt di altitudine ed i villaggi tipici rendono tutto più suggestivo. La strada inizia a salire fino al Kamba La Pass (4794 mt); qui approfittiamo del tempo a disposizione per salire lentamente su una cima che si trova a lato del passo. La prima parte della camminata è fra un’infinità di bandierine stese a terra che accumulate in grandi quantità negli anni (qui come altrove) inquinano, più in alto l’ambiente è incontaminato, con l’erbetta corta rallegrata da alcune genzianelle (più pallide di quelle alpine); il vento è tagliente. Dalla punta il panorama è assolutamente spettacolare a 360 gradi e nei 180 gradi di vista rivolta sul lago Yamdrok è di una bellezza che lascia davvero senza parole: il lago sacro con la sua forma irregolare si insinua fra le montagne ed ha colori unici e stupendi. Dopo la ripida discesa al lago (4400 mt) sostiamo nuovamente per due passi su una spiaggia invasa da ometti di pietra ed attrezzata con yak e caprette per le foto dei turisti. Allontanati dal lago i villaggi si fanno più frequenti ed abbiamo la fortuna di assistere (lungo tutto il percorso fino al Nepal) alla mietitura dell’orzo in tutte le sue fasi, dal taglio alla legatura, dal trasporto all’accatastamento dei fasci. C’è molta gente che lavora nei campi con scenette d’altri tempi, quindi spesso e volentieri ci fermiamo per immortalare tante bellissime immagini. In alcuni villaggi (in uno dei quali sostiamo per il pranzo) di fronte alle case vicine alla strada ci sono tavoli da biliardo ma non vediamo giocatori. Il paesaggio continua a cambiare ed ora si fa più aspro, si avvicinano grandi montagne bianche. Raggiungiamo i primi ghiacciai e contro il bagliore dei nevai il cielo diventa blu scuro. La salita continua fino al Karo La Pass (5110 mt) segnalato da una enorme quantità di bandierine. Subito dopo il passo i ghiacciai si mostrano in tutte le loro sfaccettature di forme e colori grazie al sottile manto di neve fresca, sembrano incombere su un piccolo accampamento dove poche giovani donne con bambini aspettano i turisti per le foto mentre gli uomini lavorano grandi tronchi destinati a costruzioni. Ancora una sosta ad un passo nei pressi di una grande diga e poi scendiamo verso la fertile vallata di Ghyantse. Le campagne brulicano di gente intenta alla lavorazione dell’orzo: è una sensazione di grande tranquillità; i mezzi sono trainati da buoi, yak, cavalli, motorette o piccoli trattori. Dopo la visita al monastero di Palkhor Choide e dello stupa Kumbum (dai quali si spazia su tutta la vallata e dove incontriamo alcuni monaci bambini) ci avviamo verso Shigatse. Lungo le strade della cittadina (più che altrove) di fronte alle case sono posizionate decine di parabole che riflettono i raggi del sole sul bollitore posto al centro per scaldarne l’acqua. A Shigatse (3900 mt) al Manasarovar hotel, la nostra camera è rivolta sul cortile di una caserma dove molti giovani militari si alternano in esercitazioni e marce.
29.09 Mentre Lhamo si fa consegnare i permessi per Rongbuk,passeggiamo per un paio d’ore lungo una strada di Shigatse; curiosiamo fra le varie botteghe, facciamo acquisti, coccoliamo un micetto attaccato col guinzaglio ad un albero (mentre il suo proprietario ci osserva dalla sua bottega). Visitiamo il monastero di Tashilumpo, vasto, con i tetti dorati, al suo ingresso c’è un simpatico monumento ai turisti. Pranziamo nei pressi del monastero e riprendiamo la Friendship Highway. Nonostante l’altitudine la terra continua ad essere coltivata e lungo la strada ci sono piccole siepi con teneri fiorellini e piantagioni di alberi. Passiamo il Young La Pass (4500 mt) dove oltre alle bandierine un cartello invita tutti ad un locale di shigatse per canti e balli. Percorriamo l’ampia altura dove il consueto cumolo di bandierine segnala il Gaytso La Pass (5248 mt) e dopo poche centinaia di metri facciamo brevi camminate per ammirare e fotografare la punta dell’Everest. Il paesaggio continua ad essere stupendo con paesini abbarbicati, qualche monastero distrutto, il verde, il grigio dei campi di orzo tagliato, qualche macchia di giallo, i fiumi che scendono ripidi ma larghi, piatti e senza salti a volte attraversati da qualche raro ponte tibetano, campi in cui ferve l’aratura trainata da yak. Arriviamo a Shegar (Baiba o Bebar – 4400 mt) appena in tempo per fare quattro passi prima dell’imbrunire. All’Everest (Chomolangma) hotel la cena è diversa dal solito(una serie di piatti di verdure, riso, carne, zuppe e salse da cui pulciare). Troviamo un gruppo di italiani dello stesso nostro tour operator, fanno il giro inverso (senza Rongbuk) al nostro e trovano difficoltà nell’adattarsi all’altitudine (cosa a noi non successa). La parete finestra della nostra stanza al piano terreno ci offre una stupenda stellata e la notte passa insonne, non per l’altitudine, ma per alcuni rumori provenienti da sotto i letti.
30.09 Quando alle 4 suona la sveglia capiamo la causa dei rumori: un topolone scorrazza fra i nostri piedi. La colazione è pronta con tanti piatti ben disposti sul tavolo. Partiamo, l’autista è davvero bravo nel destreggiarsi sulla pista in gran parte ghiacciata, sparute luci molto avanti o molto dietro di noi indicano pochi altri turisti con la stessa nostra meta: l’alba sull’Himalaya. I fari illuminano la pista impervia e scoscesa, oltre il buio inghiotte tutto; facciamo alcune tappe a posti di polizia per la registrazione. In tutta la zona del parco le strade non sono asfaltate per non rovinare l’ecosistema dei ghiacciai. Arriviamo al Pang La Pass (5200 mt) quando è ancora notte fonda (solo altre 2 auto ci hanno preceduto), l’autista prende posto in una buona posizione sullo spiazzo rivolto all’Himalaya e tiene il motore acceso per non patire troppo il freddo (scendere è proibitivo nonostante l’abbigliamento adeguato). Dopo poco arrivano le prime luci dell’alba e lo spettacolo è indescrivibilmente meraviglioso, questa finestra sull’Himalaya in una giornata così tersa è uno scenario unico e magico. Ci godiamo l’alba con i suoi molti colori che illuminano tutta la catena: dal Makalu al Lotse all’Everest (la cui vetta si è “accesa” per prima) al Cho Oyu. Quando abbiamo il coraggio di uscire dall’auto (facendo attenzione perché il terreno è coperti da uno spesso strato di ghiaccio) spostandoci di pochi passi allarghiamo il panorama fino al Shishapagma. Pensiamo che sia meglio non contare le foto che abbiamo scattato. Ripartiamo, la strada scende con una serpentina infinita di 2 serie di tornanti lunghi e stretti, spesso alle estremità ci fermiamo ancora per delle foto come se ci mancasse qualche angolazione particolare. La valle di Rongbuk è invasa da una miriade di fasci d’orzo ora ben allineati come muretti, ora sparsi irregolarmente o ammucchiati. Non ci sono auto (oltre alle poche dei turisti), tutti i lavori sono svolti con l’ausilio degli animali. Vicino ad un villaggio ci fermiamo a vedere un mulino ad acqua dove però la macina non gira spinta dalla caduta bensì dello scorrere in piano dell’acqua. Nei vari rigagnoli del fiume ci sono bambini che con mestoli attingono l’acqua grigia dei ghiacciai per riempire piccoli bidoncini di plastica. Ancora una sosta ad un posto di polizia e poi entriamo sulla pista che ci porta al cospetto di Qomolangma. All’accampamento lasciamo auto ed autista per salire sulla navetta che porta al campo base (5250 mt): il tragitto è un susseguirsi di sobbalzi (andarci a piedi sarebbe possibile ma, anche se sono pochi km, ci vorrebbe troppo tempo vista l’altitudine). La navetta posa i turisti nei pressi di una caserma a fianco di una vasta spianata. La natura qui ha tre colori: il grigio delle pietre e dell’acqua, il bianco abbagliante del ghiaccio e della neve e l’azzurro del cielo. Il grande pianoro di ghiaia e detriti è percorso da vari rigagnoli d’acqua ed è costellato da una infinità di ometti di pietra. Camminiamo lentamente fino al limite consentito, per andare oltre ci vogliono permessi particolari più costosi che comprendono la scalata dell’Everest; da qui i più fortunati, nei mesi di luglio e agosto, possono raggiungere la vetta in 6/7 giorni. Anche qui i militari sono molto presenti . Saliamo su una piccola collinetta che da un ottimo punto di vista sulla cima dell’Everest e sui ghiacciai e che sovrasta direttamente le tende degli scalatori nel campo base (le tende sono poche e pare non ci siano scalate in corso in questo periodo, le scalate da qui possono durare fino a 30 gg). Ci sono alcuni sherpa che stanno rientrando ciascuno con 3 bomboloni sulle spalle. La collinetta è sovraffollata di turisti (che ancora una volta chiedono foto con noi forse perché siamo gli unici occidentali).Restiamo a lungo a godere dello splendore della natura , avere il Qomolangma così vicino è emozionante ed il posto e suggestivo (peccato la caserma e soprattutto i servizi igienici costituiti da una costruzione senza acqua su palafitte, sotto la quale scende tutto all’aperto). Rientrati al campo tendato (quadrilatero di tende destinate ad alberghi, ristoranti e ufficio postale) pranziamo con patate e carne tagliati fini e fritti insieme (preparati e cucinati velocissimi sul momento). Nonostante il freddo esterno sotto la tenda c’è un buon tepore; la tenda è arredata con grandi divani dai rivestimenti in tessuti tradizionali che di notte fungono da letti e negli angoli sono impilati trapunte e piumoni. Gironzoliamo nei dintorni continuando ad ammirare la grande e candida montagna sempre senza nuvole e con solo di tanto in tanto qualche baffo di neve sollevata dal vento, e lo scorrere della vita di chi qui trascorre 6 mesi all’anno. Torniamo indietro a Rongbuk, non è un villaggio ma un nucleo formato da un monastero, una caserma e da una costruzione che fa da albergo. Su una statua nel monastero lasciamo gran parte delle sciarpe bianche ricevute come benvenuto durante il viaggio; alcuni giovani monaci sonnecchiano sui cuscini nella sala delle preghiere (ci chiediamo come possano sopravvivere 30 monaci isolati per 6 mesi all’anno con solo poche capre e qualche yak che già ora, senza neve, faticano a trovare un poco di verde per saziarsi (siamo a 5200 mt di altitudine e per km il paesaggio e solo di ghiaia e pietre). Dalla caserma partono ronde di militari che per l’abbigliamento pesante sembrano astronauti. L’albergo è una costruzione su tre piani, non c’è corrente elettrica, il ristorante/bar e i “gabinetti” sono nel piano centrale, l’acqua non è corrente ma contenuta in un bidone appoggiato al piccolo lavabo. La nostra stanza è d’angolo al piano alto ed offre una vista meravigliosa sull’Everest permettendoci di osservare lo straordinario spettacolo dal tramonto, alle stelle, all’alba senza assiderarci. Cerchiamo di contrastare i tanti spifferi con i cuscini, dormiamo aggiungendo i pigiami a parte dei vestiti, utilizziamo i nostri mini sacchi-lenzuolo e aggiungiamo alle molte coperte gli indumenti pesanti. Coricandoci i 5200 mt di altitudine si fanno sentire e la notte passa in parte insonne.
01.10 Al mattino usiamo l’acqua calda del grande termos per lavarci la faccia, su un secchio, in camera. Quando partiamo alle 7,30 il sole è già alto ma non raggiunge ancora il fondovalle, la macchina è coperta da uno spesso strato di ghiaccio ed anche i rigagnoli del fiume sono gelati. Dopo un breve tratto lasciamo la valle di Rongbuk e la pista piuttosto brutta supera alcuni valichi moto scoscesi e ripidi (ovviamente senza ripari). Inizialmente gli unici esseri che vediamo sono qualche yak sperduto che bruca la poca erba gelata, poi incontriamo un paio di donne a piedi e diventa un’impresa superare l’unico mezzo di trasporto costituito da un carretto trainato da un cavallo più un secondo cavallo legato al seguito, infine riappaiono piccoli villaggi sperduti. All’ultimo villaggio prima della Friendship highway abbiamo la fortuna di assistere alla trebbiatura dell’orzo, c’è un gran polverone ma è un’esperienza d’altri tempi, il lavoro coinvolge tutto il villaggio e solo alcuni bambini piccoli hanno tempo di guardarci tra paura e curiosità. Ora che siamo scesi a 4300 mt le poche nuvole presenti sembrano pochi metri sopra di noi e conferiscono ulteriore bellezza alle montagne. Durante una sosta a Gutsuo alcuni uomini chiedono di provare i nostri occhiali e vorrebbero farsi fare una foto, Lhamo cerca di spiegargli che non abbiamo macchinette a sviluppo istantaneo. Saliamo al Lalung La Pass (5050 mt) dove c’è una bella veduta sul Shishapangma ed una tenda in cui vive un monaco sfidando il vento impietoso. Superato il passo la strada comincia a scendere e si incunea in una vallata, il paesaggio cambia velocemente, le montagne sembrano innalzarsi: niente più ampie distese ma ripidi pendii che diventano verdi e si coprono di alberi con cascate tipicamente alpine (sotto una di queste che cade sulla strada l’autista fa una breve sosta per lavare l’auto senza fatica), alcuni tratti di strada sono impressionanti. Il Tibet ed i tibetani sono ormai alle nostre spalle. Pranziamo a Nyalam e proseguiamo per la frontiera cino/nepalese. Il cambiamento è decisamente drastico e non solo per un fatto meteorologico. A Zhangmu facciamo appena in tempo a salutare l’autista che veniamo presi in consegna da alcuni ragazzi preposti a farci passare il confine, Lhamo riesce ad accompagnarci per un ultimo saluto fin nei pressi della dogana dove lei in quanto tibetana non può accedere. Sono momenti caotici e concitati, evidentemente i turisti non devono sostare in queste zone. Nessun mezzo può attraversare questa frontiera solo le persone “sulle proprie gambe” e le merci in enormi fardelli sulla schiena di uomini e donne. Macchine e tir sono posteggiati su terrazzamenti ricavati dai dirupi. Per passare la frontiera sul ponte si cammina fra due file di militari armati prima cinesi e, dopo un breve spazio vuoto, nepalesi. Tanto veloce è il disbrigo delle formalità cinesi quanto è lento quello nepalese. I camion sono posteggiati ovunque, la strada diventa immediatamente disastrata con fango, voragini e guadi, c’è subito un senso di degrado e disordine molto accentuato. Sull’auto di turisti ci siamo solo noi ma con noi viaggiano diverse altre persone (oltre a quello che dice di essere la nostra guida) probabilmente sono autisti e guide, di altri gruppi, che devono rientrare a Kathmandu , uno di loro a turno è costretto a stare nel bagagliaio mentre le nostre valige sono sul tettino senza alcuna protezione ed all’arrivo sono semplicemente irriconoscibili. Durante una sosta per il loro pranzo uno di questi compagni di viaggio in perfetto italiano ci propone di fare bungee jumping.Nonostante il paesaggio bello verde il tratto di strada nepalese di circa 120 km in pessime condizioni, il cambio di fuso orario di -2,15 ore e il lungo ingresso con traffico caotico nella capitale sono stressanti. Kathmandu è diventata immensa soprattutto se paragonata a quella che avevamo conosciuto nel 1986.
02.10 Di buon mattino, l’autista guida, ci accompagna sulla collina di Swayambunath e nel centro raccontandoci la storia recente del paese. Salendo la scala dei 365 scalini, molte scimmie sacre si fanno largo fra turisti e fedeli per ottenere cibo; in cima alla collina il cielo è terso e contrasta con il bianco e l’oro dello stupa e dei templi, mentre in basso la folta cappa di smog copre i confini della città. Nel centro città il tempo sembra essersi fermato, tutto sembra immutato rispetto a 25 anni fa (ci sono solo più turisti), le piazze abbondano di piccioni, mucche sacre e santoni; alcune bellissime case in legno sono cadenti, altre, bene o male, sono state restaurate. Finite le visite restiamo soli a girovagare mentre viene smantellato il mercato giornaliero che invade le strade con grandi quantità di frutta e verdura. Curiosando ci imbattiamo in un mercato di antiquariato/oggettistica ed in un mercato di stoffe dove per terra ci sono enormi mucchi di tessuti variopinti, coloratissimi e ci sono negozietti traboccanti di sciarpe e stoffe di ogni genere in tutti i colori ed in tutte le tonalità immaginabili ed in una infinità di disegni. Pranziamo in un bar vicino all’albergo e siamo pronti a fare ritorno. In aeroporto i facchini ci prendono letteralmente di mano le mance. Il volo con Kingfischer è piacevole con le ultime foto alle grandi montagne; nelle sale dell’aeroporto di Delhi ci imbattiamo in grandi cartelloni in cui è sottolineato che ci sono molti milioni di bambini in più che studiano l’inglese in India che non negli Usa o in Gran Bretagna o di ragazzi che si laureano in ingegneria in India che non negli Usa o in Europa.
3.10 Dopo averci arricchito con tante emozioni si conclude per noi quello che giustamente viene considerato un “must” dei grandi viaggi.